Ars memorandi

Giordano Bruno e l'arte della memoria

lunedì 16 ottobre 2017

Natura, magia e memoria nel 'Canto di Circe' di Giordano Bruno


1. Premessa

L’opera intitolata Cantus Circaeus, pubblicata da Giordano Bruno a Parigi nel 1582, richiede al lettore di farsi parte attiva nella ricerca dei collegamenti interni, dei sensi riposti, delle cifre interpretative intorno a cui costruire una lettura compiuta e coerente. Per il suo ricco apparato simbolico, per la dichiarata volontà dell’autore di lasciare nell’ombra il nucleo vivo, filosofico e pregnante del suo discorso, questo lavoro dedicato al conoscere memorativo si offre come un testo “aperto” e plurivoco, suscettibile di interpretazioni molteplici. Del resto, basta ripercorrere sommariamente le vicende della
sua ricezione per rendersi conto di quali svisamenti, condanne e perplessità il Canto di Circe abbia suscitato, al punto da rendere assai controversa la sua collocazione: per taluni era opera dedicata alla magia ermetica, per altri una satira irriverente del papa e della corruzione ecclesiastica, per altri ancora una prassi della memoria di difficile applicazione.
Esteriormente l’opera si presenta come una giustapposizione di due dialoghi: il primo (che chiameremo per brevità Canto) descrive la magica metamorfosi operata da Circe per ristabilire le leggi di natura e per rinnovare il vincolo di verità fra apparenza ed essenza; il secondo contiene il metodo per applicare l’arte della memoria al Canto. E proprio nelle battute iniziali di questo secondo dialogo, Giordano Bruno si rivolge per via mediata al lettore, dando indicazioni su come questo libro dal carattere duplice (di un «duplex de cantu Circaeo et eius ad memoriæ Artem applicatione dialogus» parla la lettera dedicatoria) possa essere inteso. L’allievo Alberico osserva infatti che la lettura, appena conclusa, dell’incantesimo circeo ha purtroppo consumato la maggior parte del tempo assegnato allo studio dell’arte memorativa; per questo motivo, egli vorrebbe senz’altro rinunziare alla fatica d’intendere i sensi allegorici celati nelle profondità del Canto, per imprimere invece nella mente – utilizzando le mirabili strategie mnemoniche insegnate da Giordano – la molteplicità di eventi che costituisce la forma esteriore del dialogo. Il maestro Borista ben volentieri lo asseconda, propo­nendo di leggere e commentare un’esposizione applicativa dell’Arte, concepita per quegli studiosi che trovano oscuro e

inaccessibile l’insegnamento mnemotecnico che Giordano ha affidato al libro Sulle ombre delle idee. Esiste, insomma, un agile manua­le che rende accessibile a tutti la nuova ed efficacissima prassi del giudizio e della memoria. Queste parole di Bruno-Borista ci trasmettono indicazioni che meritano attenta valutazione. In primo luogo, testimoniano il bisogno di far fronte alle critiche degli allievi parigini che, desiderosi di ottenere rapidamente i vantaggi promessi dall’arte della memoria, giudicano astratte e criptiche le spiegazioni filosofiche di Bruno – quegli stessi allievi che avevano alterato e imbrattato («vitiata et conspurca­ta») le copie manoscritte del Canto fatte circolare da Bruno. In secondo luogo, le parole del maestro Borista suggeriscono all’avveduto lettore di adoperarsi per scoprire ulteriori strutture e livelli di significato.
Il punto di partenza di questo nostro lavoro dedicato al Cantus Circaeus è la convin­zione che in questo duplice dialogo (insieme filosofico e mnemotecnico) Circe stessa – la figlia del Sole che invoca le divinità planetarie e poi innalza «carmi barbari e arcani», per arginare il chaos distruttore di ogni modus, ogni limite, ogni connexio – agisca come una icastica figura della memoria bruniana, in cui sono contratte ed esem­plate luminose intuizioni filosofiche. In questa prospettiva, è possibile leggere il Cantus Circaeus come una composizione unitaria, in cui si intrecciano in forma di contrappunto la voce numinosa di Circe e le voci di Borista e Alberico, i cultori di un sapere innovativo ed effettuale, il cui esito eminente è lo straordinario potenziamento della memoria. Emergono così profonde connessioni fra la magia ordinatrice di Circe e la «nova filosofia» di Bruno, espressione di un uomo formatore e costruttore di civiltà, in lotta contro le potenze disgregatrici del tempo (il caos delle guerre di religione, la violenza dilagante, il sapere sterile dei pedanti). Come Circe, levando il suo sguardo all’unico Sole, ristabilisce coerenza e unità nel mondo, così il filosofo distoglie il suo occhio dalla superficie cangiante dei fenomeni, per cogliere l’unità essenziale che sta al fondo di ogni pluralità.
Procedendo per rapidissimi cenni, ci limitiamo qui a segnalare come Bruno, per illustrare la sua arte memorativa, ricorra a una figura del mito ricca di significazioni e ben nota ai suoi contemporanei (la Signora delle fiere, Circe esperta d’inganni e di pozioni, la seduttrice, la tessitrice dal canto soave), trasfigurandola e arricchendola di profonde valenze filosofiche. Nel Canto, Circe ha il compito di rappresentare in figura la natura intesa come «grande maga», come materia che tutto genera e dissolve e – a nostro avviso – come forza che tiene insieme il mondo e ne impedisce la disgregazione, levando alta la sua voce contro il chaos.
Il cultore della memoria deve dispiegare una simile capacità ordinatrice, imparando in primo luogo a vedere oltre l’apparenza. Il Cantus Circaeus è interamente costruito sul tema dello sguardo e del suo continuo rovesciamento: dalla corteccia al midollo, dalla superficie all’essenza, dai molti all’Uno, dal chaos irrelato all’ordine implicito. Ma per poter guardare il mondo con occhi nuovi, l’artefice della memoria deve produrre una metamorfosi nella sua stessa interiorità: dapprima riconoscendo lo stato di torpore e passività che affligge la sua mente, sedotta da innumerevoli impressioni sensibili e da proteiformi immagini fantastiche; poi costruendo in sé stesso un principio egemonico e ordinatore, un Sole irraggiante che connetta tutto con tutto. Come i compagni d’Ulisse vittime dell’incanto circeo, l’amante del vero e del bene deve riconquistare la sua umanità.
Soltanto in anni recenti, grazie al lavoro critico ed esegetico di Michele Ciliberto e degli studiosi che lo affiancano, le opere mnemotecniche di Bruno hanno suscitato l’interesse che meritano. In particolare, nel nostro tentativo di intendere la figura di Circe e l’arte della memoria, abbiamo ricavato illuminanti suggestioni dalle ricerche di Nicoletta Tirinnanzi, S. Bassi; dal saggio curato da M. Matteoli e R. Sturlese, Il Canto di Circe e la ‘magia’ della nuova arte della memoria del Bruno (come opportunamen­te evidenziato nelle note bibliografiche). Rimane a nostro avviso fondamentale, per comprendere il significato di Diana e di Circe nella filosofia nolana, l’opera di I.P. Couliano, Eros et magie à la Renaissance.
Da ultimo, un accenno al latino utilizzato da Bruno. Dissentendo da quanto hanno affermato in passato alcuni studiosi, riteniamo che la prosa latina di Bruno sia straor­dinariamente viva ed estrosa, davvero efficace nell’evocare il prodigio circeo. Una lingua personale e libera, ricca di dissonanze, lontana dal formalismo dei pedanti.



2. L’Uno e i molti
Che ne è della giusta misura assegnata alle cose? e dove sta, in natura, il limite che separa il lecito dall’illecito1? Queste sono le domande che Circe, dea e figlia del Sole, pone nel primo dei due dialoghi che compongono il Cantus Circaeus, un trattato davvero singolare – per intreccio di temi e per sviluppo – pubblicato da Giordano Bruno a Parigi nel 1582, e dedicato all’illustrazione della sua arte memorativa.
Rivolgendosi al Sole, espressione visibile del principio unitario che governa l’immensa varietà delle cose, Circe lamenta il disordine universale: la realtà è sovvertita da un profondo dissidio, è messa sottosopra da un chaos lacerante ed evidentissimo (minime occultum chaos), al punto che nulla è come dovrebbe essere e nulla si mostra per ciò che veramente è. Nell’età della decadenza e dell'anomia, ogni accadimento si inscrive nella logica dell’ipocrisia, della dismisura. Ecco allora che ogni segno esteriore contraddice l’interiorità: persino i corpi umani sono degradati a ciechi involucri attra­verso cui schiere di anime bestiali, che indegnamente se ne appropriano, diffondono iniquità e menzogna. Nella folla innumerevole degli esseri dal volto umano, vi sono oramai pochissimi veri uomini.
Qui il lamento di Circe fa immediatamente pensare alle guerre civili di religione, alle sanguinose lacerazioni, alle inaudite violenze che sconvolgono l’Europa nel secondo Cinquecento. Se la vergine Astrea ha definitivamente abbandonato la dimora degli uomini, se non vi è Giustizia né misura («modus») nel mondo e in chi lo governa, c’è da chiedersi per quale motivo i mari non si mescolino ai fuochi e gli astri lucenti non precipitino nelle terre nere. Invocando l’intervento risolutore del Sole – l’Apollo splen­dente, il fondamento della concordia universale, l’occhio del mondo – Circe riformula la sua domanda: perché madre natura ci fa patire una simile ipocrisia? Se un numero davvero esiguo di anime razionali è stato plasmato, perché gli spiriti ministeriali conti­nuano a forgiare in soprannumero corpi che hanno un sembiante umano? Un’empia ribellione, un processo di dissoluzione, una rottura dei sigilli, un indebolirsi delle leggi che secondo giustizia (iura rerum) dovrebbero governare le cose: da tutto ciò scaturi­sce la barbarie che avvelena il consorzio umano e con esso tutto il mondo naturale. Ebbene, prosegue Circe, il Sole stesso vendichi tali atti di lesa maestà, permettendo alla propria figlia di ricondurre il mondo nei giusti confini e di restituire un aspetto bestiale ai corpi che nascondono anime irrazionali.
Per Circe, infatti, esiste un’unica via d’uscita: il nesso di verità fra esteriorità e natura profonda, fra parte e tutto, fra parola e cosa dev’essere riaffermato; per questo motivo la «dea terribile dalla voce umana» (così la dipinge Omero) dispiega la virtù magica con cui è capace di sospendere e, all’occasione, di ristabilire le leggi di natura.2 Questo primo dialogo del Cantus raffigura, con la forza di immagini vivide e di parole incisive, la prodigiosa metamorfosi operata da Circe per capovolgere l’apparenza e restaurare la connessione profonda di tutte le cose. Qui l’omerica «dea trecce belle» esercita le sue prerogative di figlia del Sole, agendo come una forza che trattiene il mondo nei suoi cardini e ne impedisce lo sfaldamento, come l’«occolta armonica raggione» che rinsalda la trama invisibile e l’armonia universali.


Con queste ultime considerazioni, ci siamo già incamminati nella ricerca dei significati figurali (dei sensi allegorici) di cui parlano Borista e Alberico, gli interlocutori del dialogo secondo del Cantus, in cui si applicano i precetti dell’ars memoriae. Per ammissione dello stesso Bruno-Borista, il dialogo di Circe contiene molti significati espliciti, impressi nella corteccia o superficie delle parole (multos in ipso verborum cortice sensus explicitos); ma anche innumerevoli sensi riposti, occultati e incisi nel midollo o profonda essenzialità (intentiones quoque medullitus implicitas innumeras) e non certo facili da cogliere (nec facile intelliges3 mette in guardia Borista). Il gran­de affresco in cui appare la statuaria figura di Circe, la signora di Aiaie, può essere utilizzato come un testo denso di immagini e suggestioni, congegnato sapientemente per l’applicazione delle strategie di memoria insegnate da Bruno. Ma c’è molto di più. Bruno ci invita a leggere il Cantus sovrapponendo il primo e il secondo dialogo, intrec­ciando, come in un contrappunto di voci, varie linee e profondità di significato. E allo­ra la voce stentorea di Circe si sovrappone a quella del cultore o artefice della memoria che si misura con il phantasticum chaos, con l’infinito potere generativo dell’immagi­nazione umana, con il compito di cogliere la vivente unità al di sotto della luccicante apparenza delle cose.
Nel De umbris idearum (opera coeva al Cantus e dunque apparsa nel medesimo 1582 a Parigi, assieme alla commedia Candelaio e al De architectura et complemento artis Lullii), Giordano Bruno individua proprio nella capacità di intravedere e contrarre nella propria mente la connessione invisibile di tutte le cose, strutturata per gradi e gerarchie, la pietra angolare di una superiore conoscenza:

Uno è ciò che tutto definisce. Unico è lo splendore della bellezza in tutte le cose. Un solo fulgore risplende nella varietà delle specie. E se lo terrai a mente, metterai un oculare così potente fra i tuoi occhi e le cose universal­mente visibili, che nulla ti potrà sfuggire.4

L’occhio sensibile coglie la superficie caotica della realtà, dove ogni cosa appare come irrelata e dislogata; ma l’occhio della mente è provvisto di un potentissimo oculare che evidenzia sinotticamente ciò che sta nel grembo stesso della realtà. Riteniamo che proprio questa visione sinottica, capace di cogliere il mondo come multicolore unità, sia la condizione aurorale, primaria e fondativa, della gnoseologia nolana. E tale via conoscitiva percorre una scala ascensiva che conduce da ciò che è imperfetto e frammentario a ciò che è più ricco d’essere e di relazioni, ab imperfectis ad perfecta.
Al di sotto del chaos apparente, un unico e medesimo principio vitale informa il mondo fisico e il pensiero umano. Anticipando quanto cercheremo di argomentare nelle prossime pagine, sottolineiamo qui che nel Cantus la superiore capacità di memoria appare come l’esito di un nuovo metodo conoscitivo che – imitando la natura e la magia del vincolo solare di Circe – crea nel mondo logico architetture e simmetrie, governa il chaos delle percezioni sensibili e delle rappresentazioni, instancabilmente riconduce la multiforme e frammentaria varietà degli enti logici al loro principio unita­rio. Il conoscere memorativo di Giordano Bruno si configura come un sapere architet­tonico, cioè un’arte delle arti, una logica inventiva-combinatoria-ordinativa che consente di esaminare e perfezionare i principi di tutte i saperi particolari.

Le figure, i sigilli, le statue, le architetture, i paesaggi interiori inscritti nella memoria racchiudono in sé – come la Circe del nostro dialogo – una struttura vivente di nessi e di significati. Un cosmo interiore, in cui l’immaginazione, la ragione che pensa per immagini e la memoria eidetica sono il fondamento della conoscenza e dell’azione effettuali, misurate, virtuose.
La memoria ben ordinata diventa a sua volta il supporto e la «discursiva architectura» in cui si innestano ulteriori conoscenze. Il supporto e i dati che in esso incessantemen­te si imprimono si influenzano a vicenda. Ogni parte dialoga con il tutto e, come in uno specchio vivente, illumina significati sempre nuovi. La conoscenza memorativa di Bruno non è pertanto una semplice mnemotecnica, ossia un insieme ben congegnato di artifizi capaci di rafforzare la naturale disposizione al ricordo; è per contro un’arte del giudizio e della connessione, che consente, da un lato, di smascherare le false credenze e, dall’altro, di edificare un sapere innovativo.

3. La corteccia e il midollo
Ma torniamo alla «saga», lungimirante, preveggente Circe che col suo canto demolisce ogni ipocrisia. Assistita dall’ancella Moeris, Circe invoca le sette divinità planetarie e compie

domenica 23 marzo 2014

Il canto di Circe


Quando cerchiamo di avvicinarci al nucleo più profondo della filosofia di Giordano Bruno, ci imbattiamo in grandi immagini evocative, in possenti figure mitiche cui è affidato il compito di racchiudere una trama complessa di significati. È come se il discorso e la parola – giunti a un certo grado di astrazione - dovessero lasciare spazio alla visione e all'intuizione. Esplicitamente, Bruno ci ricorda che il filosofo è insieme poeta e pittore, poiché pensa e si esprime per immagini:


I filosofi sono in certo modo pittori e poeti, i poeti sono pittori e filosofi, i pittori sono filosofi e poeti; e reciprocamente i veri poeti, i veri pittori e i veri filosofi si stimano e ammirano. E infatti non è filosofo se non chi immagina e rappresenta [fingit et pingit], per cui non senza ragione si dice: “il pensare è un contemplare immagini mentali [phantasmata]”. (Explicatio triginta sigillorum, Londra 1583)

Questa poetica raggiunge esiti altissimi nel dialogo De gli eroici Furori, pubblicato a Londra nel 1585. Qui Bruno si serve delle parole per descrivere ventotto imprese, ossia immagini accompagnate da un motto. Le imprese sono seguite da un componimento poetico che guida il lettore-pittore-scultore alla comprensione del significato occulto dell'immagine. In questo dialogo c'è dunque uno stupefacente intarsio di poesia, pittura e intuizione filosofica (ossia ricerca del senso intimo, essenziale, occulto che le immagini svelano e insieme nascondono).



Michelangelo Merisi da Caravaggio, 
Narciso, Galleria Naz. d'Arte Antica,
Palazzo Barberini, Roma
L'immagine lascia intravedere – in ombre e riflessi – ciò che difficilmente l'uomo può capire. Vi è una sapienza divina che sfugge alle parole e alla possibilità umana di comprensione; ma da un fondo scuro, umbratile si stagliano i contorni di immagini che mettono l'uomo sulle tracce della verità. In questo nostro mondo - caratterizzato dalla commistione di luce e ombra, dal perenne fluire dei cambiamenti, dalla ruota della vicissitudine - null'altro possiamo vedere se non le ombre della divina luce e i riflessi della divina bellezza e verità (In orizonte quidem lucis et tenebrarum, nihil aliud intelligere possumus quam umbram).

Per intendere il concetto bruniano di umbra e 'proiezione' (termine, questo, che qui introduciamo per rendere meglio l'idea di azione congiunta di luce e ombra)  dobbiamo ricordare che il verbo italiano “adombrare” (latino ad-umbrare) esprime ancora oggi, nella nostra lingua corrente, la duplice natura dell'ombra, nei suoi significati di: 1) velare, togliere parzialmente alla vista, coprire d'ombra un oggetto e 2) descrivere con termini essenziali oppure disegnare i contorni di un oggetto (la parola latina adumbratio si può render con “abbozzo, rappresentazione schematica”).

Il pensiero e il ricordo presuppongono dunque l'immagine mentale: ed essa è gradazione di luce, proiezione, traccia, analogia, simulacro, visione, ombra. Occuparsi di arte della memoria significa imparare a creare, visualizzare e, soprattutto, concatenare immagini. 

J-B. Suvée, Invenzione del disegno, (part.), Groeningemuseum, Bruges
Si sa che, in epoca umanistico-rinascimentale, è assai diffusa la passione per le icone, gli emblemi e i simboli; per i sigilli, gli stemmi, i cammei e i talismani; per le grafie segrete e i geroglifici (nel loro significato di «lettere sacre incise»). Ma l'attitudine a pensare per ideogrammi e alla “pittura interiore” raggiungono esiti sorprendenti in Bruno e nella sua arte della memoria. L'ars memorativa di Bruno non è una semplice tecnica che potenzia la naturale disposizione al ricordo; è invece il tentativo di rispecchiare nella mente le idee che racchiudono l'essenza viva, profonda e divina delle cose. Contemplando tali immagini geroglifiche è possibile non solo ricordare, ma anche accrescere la propria conoscenza, per via di successive intuizioni.

Ebbene nei Furori - l'opera in volgare che abbiamo sin qui considerato come punto di partenza per lo studio della mnemotecnica bruniana - due possenti caratteri svettano, come principi di movimento da cui trae origine l'intera rappresentazione, come fili d'oro dell'ordito narrativo e concettuale. Si tratta di due figure della tradizione mitica che portano con sé secoli di interpretazioni, varianti e affabulazioni. Nel post precedente (Diana e Atteone), abbiamo visto come Bruno reinterpreti il mito del cacciatore Atteone, sottoponendolo a un'originalissima trasposizione di significato. Ora, un'altra figura si impone alla nostra attenzione: Circe, terribile dea e maga, figlia del Sole. Se Atteone rappresenta la condizione dell'uomo che si protende oltre la sua finitezza, Circe rappresenta quel principio (la prima materia che tutto costantemente genera e distrugge) che attrae l'uomo verso il basso. L'antro di Circe è quella condizione di oscurità, incantamento, dimenticanza di sé che travolge la grande parte dell'umanità. L'uomo non ha occhi per vedere e per questo si tormenta.

L'incontro fra Odisseo «ricco d'astuzie» e Kirke [Κìρκη] «la dea trecce belle» viene narrato nel libro decimo dell'Odissea. Per entrambi – su piani diversi e incommensurabili – l'incontro segna un evento significativo, che innesca vicende e conseguenze di ampia portata. L'immortale Circe incontra un uomo che non subisce l'incantesimo e smaschera i suoi raggiri: la coppa avvelenata e il colpo di bacchetta, che già avevano trasformato i compagni di Odisseo in porci, non sortiscono effetto. La dea «dai molti filtri [phàrmaka]» urla sbigottita, afferra le sue ginocchia, implora amicizia, fiducia e amore; perché lo riconosce: egli è «Odisseo l'accorto che doveva venire», come sempre le prediceva Ermete.
J.W. Waterhouse, Circe offre la coppa a Ulisse, 1891
Gallery Oldham, Greater Manchester, U.K.
Per Odisseo, eroe di stirpe mortale, l'incontro con la signora di Aiaie è punto di svolta ai fini del ritorno in patria. Con il decisivo concorso di Ermete, Odisseo si impone su Circe e il rapporto muta di segno: da ostile e oscura ammaliatrice, Circe diviene benigna protettrice, maga solare, dea ispiratrice che indica la rotta (discesa nel mondo infero e ritorno in patria).

Nei secoli, questo racconto ha originato grandi ricerche di 
senso, discussioni, contrapposizioni; da subito la schiera di quanti rimproveravano al poeta Omero leggerezza e superficialità nel parlare degli dei (divinità come Circe, che offrono il proprio letto a un mortale per un intero anno) si è contrapposta ai fautori di un'interpretazione allegorica [greco, allegoréuein: parlare di una cosa per significarne un'altra]. Per questi ultimi, il sapiente Omero racconta simili vicende – poco edificanti e piene di contraddizioni – adombrando sacre verità. 
Di generazione in generazione, il mito (mythos sta per parola e racconto) si arricchisce di significati e si stratifica: gli incantesimi di Circe, i suoi inganni, le pozioni e la degradante metamorfosi imposta a uomini inconsapevoli diventano immagine della trasmigrazione delle anime, del ciclo di morte e rinascita, della soggezione dell'anima ai sensi e alla corporeità, degli incantesimi velenosi che imprigionano le anime degli eretici, della seduzione e della malia erotica e – in tempi a noi più vicini - dell'eterno principio femminile.

Per far sì che Circe ci dischiuda un aspetto chiave della filosofia di Bruno, dobbiamo richiamare le narrazioni in cui la dea – che porta in sé, per via di generazione, il principio solare e il principio acquatico-lunare - è associata al governo del mondo materiale e delle forme sensibili.
Secondo una lettura diffusa nella tarda antichità da autori di orientamento neoplatonico e neopitagorico, la maga che tramuta i compagni di Odisseo in porci rappresenta quel principio di generazione che ciclicamente spinge le anime a reincarnarsi nei corpi di diversi animali. Tale forza generativa o prima materia, è anche caratterizzata da una brama insaziabile, che genera sempre nuovi individui e divora quelli esistenti. Per i singoli enti, essa è principio di generazione ma anche di dissoluzione, poiché ogni forma individuata deve presto lasciare spazio a un'altra forma. Il perenne fluire della cose; la ruota instancabile della vicissitudine, che porta in basso ciò che prima era in alto; l'impermanenza di ogni realtà nel mondo sensibile sono causa di oblio, cecità e ignoranza per le anime incarnate (si legga a questo proposito quanto afferma Proclo, autore del V secolo dopo Cristo, In Primum Alcibiadem, 110c).

E il veleno o coppa di Circe rappresenta proprio la seduzione, la malia,
Franz von Stuck, Circe, c.1913
 Alte Nationalgalerie Berlin
la fascinazione che le belle forme e i piaceri della realtà sensibile esercitano sulle anime. Generazione e corruzione agiscono per forza di incanto e di oblio. L'anima umana dimentica sé stessa e la propria patria divina; è sedotta, posseduta, irretita dalle forme cangianti del mondo sensibile. Destino analogo ai compagni d'Ulisse, rinchiusi in un porcile e oppressi da un acuto rimpianto cui non sanno dare un nome. È la nostalgia della perduta condizione di libertà e consapevolezza, da parte di chi subisce i condizionamenti della materia (il circolo, il recinto).

Circe ha dunque natura ambigua, ancipite: è il principio solare di generazione e armonia delle forme sensibili (simboleggiato dal suo canto melodioso e dalla sua abilità di tessitrice); è principio lunare-notturno (discende per via di madre da Oceano) di caduta, degenerazione, oblio, seduzione, incantamento.
Concludiamo sottolineando che queste dottrine di derivazione ermetica e neoplatonica permeano in profondità la nostra cultura, si ritrovano nei grandi trattati di magia e alchimia e ritornano alla superficie con vigore nell'epoca rinascimentale.  


Potente e suggestiva è la figura di Circe evocata da Bruno, in svariati passi delle sue opere. Come abbiamo visto, il processo di risveglio che consente all'amante della divina luce di emanciparsi dalla condizione di passività e di sogno, in cui vivono le moltitudini degli uomini, è rappresentato in immagine dal cacciatore Atteone. Ma sono molte le forze che si oppongono alla rinascita. È infatti necessario trasgredire un ordine naturale che vuole l'uomo come soggetto inerte e passivo del mondo sensibile, degli stati corporei, delle passioni, di una mente offuscata. A tale ordine sovrintende Circe, come Bruno illustra in un passo importante:


Infine, come se ci astenessimo dalle coppe avvelenate di Circe evitiamo che l'animo, sedotto dalle specie sensibili, finisca per fissarsi su di essa tanto da ignorare le delizie della vita intelligibile, e badiamo che l'animo, inebriato dal vino delle affezioni corporee e della volgare autorità, non dimori in perpetuo nella notte della presuntuosa ignoranza, e qui, agitato dai cattivi sogni di una turbata fantasia, si disperda e, contemplando il volto di Proteo, mai più ritrovi una specie convenientemente formata in cui aver riposo. [Explicatio Triginta Sigillorum, Quarta cautela]

T. de Bèze, Icones (1580). Emblema XIV
Ebbro, dormiente, sopraffatto da emozioni che lo atterriscono (il mostro marino Proteo), l'uomo fatica a ergersi come individuo consapevole, perché costitutivamente travolto dall'«ignobil numero». Il processo di ascesa verso la verità e la consapevolezza richiede al filosofo di sciogliersi dai vincoli della molteplicità oscura e priva di ordine. Per «sciocca e ignobilissima moltitudine» - osserva Bruno - deve intendersi in primo luogo il corpo, abitato da una pluralità di emozioni, sensazioni, bisogni che si combattono senza tregua; da un punto di vista esteriore, invece, la pluralità indistinta caratterizza gli uomini condannati a vivere – per «occolta armonica ragione» - nell'inconsapevolezza, nella più cupa illusione.

L'uomo eroico vive il destino luminoso di Atteone: egli muore alla vita ordinaria e dispersiva, per rinascere alla contemplazione del vero; smette di bere i calici avvelenati di Circe e perciò ritrova, in sé stesso e nel mondo circostante, il principio di Unità, bellezza e armonia che è l'Essenza vera. Potremmo dire che Atteone ha occhi per vedere il mondo e sono occhi estatici, pieni di gratitudine per l'indicibile bellezza. La Natura gli appare come Diana, come ombra di Dio nelle cose. Tutto è pervaso di vita e bellezza; in tutto si manifesta l'Uno.

In ogni cosa – scrive Bruno – il furioso «illuminato» vede «la divina e interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria delle legge insita in tutte le cose»:


Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando ed urtando or in questo, or in quell'altro fosso, or a questo or a quell'altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa, or in quell'altra faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar l' armonia vince e supera gli orrendi mostri [...] e sotto l'imagini sensibili e cose materiali va comprendendo divini ordini e consegli. [Furori, Parte prima, Dialogo terzo]

Il percorso che dall'oscurità conduce alla luce è rappresentato dalla vicenda dei nove giovani innamorati (protagonisti dell'ultimo dialogo degli Eroici Furori; Parte seconda, dialogo V), «or vedenti, or ciechi, or illuminati». Il primo dei vasi fatali che essi ricevono in sorte da Circe contiene un'acqua (le acque inferiori) che li accieca e li costringe a vagare per dieci anni, «ciechi raminghi e infortunatamente laboriosi». Ma Circe dona loro un secondo vaso, che contiene le acque che illuminano, provenienti dalla regione superiore del firmamento. La maga può solo consegnare, ma non aprire questo vaso. Dopo anni di peregrinazioni (ossia di ricerca e ascesi), il benefico intervento di una ninfa (cioè il favore divino) dischiude il vaso e restituisce ai giovani una vista più potente e limpida di quella che avevano perduto. 


Nella loro condizione di veggenti, i giovani contemplano l'armonia universale, il moto dei mondi, le opere della natura e finalmente riconoscono nell'opera della «diva» Circe una manifestazione della divina provvidenza che – muovendo la ruota dei contrari: giorno e notte, giovane e vecchio, freddo e caldo, luminoso e oscuro – consente «l'alta e magnifica vicissitudine». La vicissitudine non è più intesa come un cieco fluire, come un insensato divenire; la vicissitudine è quel processo che

agguaglia l'acqui inferiori alle superiori, cangia la notte col giorno, ed il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l'infinita bontà infinitamente si communiche secondo tutta la capacità de le cose.[Furori, Argomento e allegoria del quinto dialogo]

Attraverso la perenne vicissitudine, ciò che era in alto viene in basso, la notte si fa giorno e Dio si manifesta, facendosi natura e vincolo universale. 





La figura di Circe compare anche nell'opera intitolata Cantus Circaeus, in cui Bruno illustra il suo personale contributo all'arte della memoria. Di essa ci occuperemo nei prossimi articoli. 




Riferimenti bibliografici: 


N. Tirinnanzi,"Note ai Testi", in G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a c. di M. Ciliberto, Milano, 2000 
A. M. Panzera, Caravaggio, G. Bruno e l'invisibile natura delle cose, Roma, 2011
C. Franco e M. Bettini, Il mito di Circe, Torino, 2010
G. Bruno, Explicatio triginta sigillorum, in Opera latine conscripta, 3 voll. Neapoli, 1879-1891

N. Ordine, La soglia dell'ombra, Venezia, 2003




venerdì 28 febbraio 2014

Diana e Atteone


Il grande cacciator divenne preda



Questo blog nasce dal bisogno di condividere l'interesse per la figura e l'opera di Giordano Bruno nolano. In questo nostro tempo – insieme di crisi e di straordinarie aperture – la nova filosofia di Bruno suscita interesse e attrae quanti intravedono in essa un nucleo straordinario di vitalità, una capacità di sintesi e di visione illuminanti, un'ispirazione autenticamente religiosa, dove religio è ciò che lega (lat. re-ligare) l'uomo agli altri uomini e al cosmo infinito vivente.
Il filosofo che ha inteso spezzare le catene del geocentrismo, che ha combattuto ogni forma di autoritarismo, che ha deriso i pedanti rappresentando la filosofia in forma di commedia e risata ci insegna a vedere come illusoria ogni separatezza, ogni contrapposizione nata dalla convinzione di possedere – una volta per tutte e in modo indubitabile - la verità.
A. Alciato, Emblematum Liber
Per Bruno, il valore di un uomo non sta nel possesso o nella capacità di imporre la verità; il valore di un uomo sta nella costante aspirazione alla verità: in quel forte spirare, in quell'eroico furore che è ardore e passione della verità e della luce divina. Il paludato professore, che vive in un mondo descritto una volta per tutte da Aristotele, il religioso settario, che - in nome e per conto di Dio - combatte i suoi simili, vivono nella cecità e perciò non raggiungono la condizione e la dignità di uomini (come vedremo, queste devono essere conquistate!).
Il vero filosofo è un cacciatore: si spinge nei recessi più oscuri e umbratili della foresta, in traccia della sua preda. Inseguimento, milizia, bisogno costante di cacciare oltrepassando sé stessi. Necessario, in primo luogo, liberarsi dal sonno, dall'incantamento di Circe che imprigiona la grande parte dell'umanità. L'uomo crede di essere desto, crede di avere occhi per vedere, ma la sua anima è in stato di oblio.  

Rivolgiamo ora l'attenzione al mito del cacciatore Atteone. Nel dialogo intitolato De gli eroici furori, Giordano Bruno richiama e reinterpreta questo mito attribuendogli una grande centralità e pregnanza di significato. La figura di Atteone diviene così un simbolo o “ieroglifico” che condensa in sé una fitta trama di significati, una visione o immagine mentale che custodisce l'essenza più profonda di un concetto e di un'esperienza.

Parmigianino, Atteone, Ciclo di Fontanellato
Anticipando ciò che studieremo in relazione all'arte della memoria, diciamo per inciso che la capacità di creare immagini mentali impressionanti, connesse a forti sentimenti, capaci di rapire e infiammare l'attenzione è il presupposto stesso della strabiliante arte mnemonica che Bruno padroneggiava, suscitando sospetto, stupore, ammirazione, smarrimento nei suoi interlocutori. In virtù di tale facoltà immaginativa, ciò che si dice a parole è soltanto un tentativo di raccontare - in modo approssimativo e per frammenti – ciò che tale visione racchiude in unità. 

Ma se è vero che l'arte della scrittura interiore non può essere descritta, ma soltanto appresa nella pratica, cerchiamo ora di svolgere la nostra parte di artefici, dando forma nella nostra mente alla figura di Atteone. 

Tiziano, Diana e Att., Edimburgo, National Gallery
L'eroe tebano Atteone, nipote di Cadmo, addestrato all'uso delle armi dal centauro Chirone, si trovò a vagare durante una battuta di caccia per un bosco che non conosceva. Il destino lo condusse nella grotta dove la dea Diana, stanca di cacciare, faceva il bagno assieme alle ninfe sue compagne. La vergine, che orgogliosamente e sdegnosamente si sottraeva a ogni sguardo, fu contemplata nella sua nudità da Atteone. Egli posò il suo sguardo sul corpo di Diana – la dea della caccia, la dea lunare, la Natura stessa nella sua indicibile bellezza. Arrossendo e adirandosi in volto per l'oltraggio subito, Diana gli spruzzò dell'acqua in viso, trasformandolo in cervo e impedendogli di riferire ciò che aveva visto. Scappando, Atteone giunse ad una fonte dove, specchiatosi nell’acqua, si accorse del suo nuovo aspetto. Ma i suoi stessi cani ora lo inseguivano. Fu così che - come dice Bruno - il "gran cacciator dovenne caccia".
Il valentissimo cacciatore Atteone fu preda dei suoi cani, che, aizzati dagli amici e compagni di caccia, lo sbranarono. Pur consapevole di quanto stava accadendo, Atteone non fu in grado di proferire parola umana e di farsi riconoscere.

Fra le varie versioni del mito trasmesse dalla tradizione, Bruno sembra riferirsi con ogni probabilità alle Metamorfosi di Ovidio, cui rinviamo. 

 
Atteone (part.), Fontana di Diana e Atteone, Reggia di Caserta


Ciò che a noi interessa evidenziare è la torsione e la trasposizione di significato che il mito della caccia subisce negli Eroici Furori (cfr. Parte prima, Quarto dialogo), opera che Bruno pubblicò a Londra nel 1585.

La venagione, la caccia, rappresenta quello stato di continua ricerca e di inappagata tensione cui si consacra l'uomo che – risvegliato a nuova vita dall'amore ardente per il Sole intelligibile – si pone in traccia della divina bellezza, verità e sapienza. Questa è la condizione dell'«eroico furioso»: essere trasfigurato da una divina mania, da un amore inestinguibile per la luce divina, per quella abbagliante bellezza che si riflette nella Natura, nella nudità di Diana.

Tale tensione comporta un processo di interiore trasformazione, esplicitamente descritto nel Quarto Dialogo. Atteone - colui che rappresenta in figura «l'intelletto intento alla caccia della divina sapienza» - si avventura nei luoghi più inaccessibili delle selve, dove pochi osano arrivare. Egli è preceduto dai propri cani («i mastini e i veltri slaccia Il giovan Atteon»); i veltri stanno per le facoltà intellettuali e i più forti mastini per la volontà.

E improvvisamente Atteone scorge un riflesso nell'acqua: è quanto di più bello mente umana o divina possa contemplare. È la nudità di Diana, l'ombra che la sublime divina luce (l'universale Apollo) proietta nella materia e nel mondo delle cose visibili. Diana-Luna riflette la luce universale, una luce acciecante che l'uomo può contemplare solo nei riflessi, nelle ombre, per speculum et in aenigmate.

Così Bruno:

Vedde il gran cacciator; comprese, quanto è possibile e dovenne caccia; andava per predare e rimase preda questo cacciator [...].



Questa visione comporta anche la morte iniziatica di Atteone. Egli muore a sé stesso, alla vita ordinaria, ad ogni sapere illusorio che spinge a cercare la divinità in luoghi impervie e irraggiungibili. Atteone, rapito fuor di sé dall'estatica visione della Diana tutta nuda, si scopre simile a ciò che più ardentemente brama. Amare e comprendere significa convertirsi nell'oggetto amato. Atteone muore scoprendo che i riflessi di divinità, bellezza verità che egli cercava all'esterno e nei luoghi più occulti, devono essere ricercati nello specchio della propria interiorità. Il cacciatore si fa preda; la muta di mastini e veltri si lancia ora contro il cacciatore.

Ogni autentico amore provoca una trasmutazione nell'anima dell'amante. Così si esprime bruno:

Cossí Atteone con que' pensieri, quei cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, ed in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s'accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità.
 
E ancora :

Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato intelletto e voluntade.


Diana (part.), Reggia di Caserta


L'occhio estatico di Atteone può ora scorgere nuovi sentieri, in un percorso che lo condurrà con ritrovato slancio verso la contemplazione, verso l'Uno che è in tutto e tutto lega per vincolo d'amore. Qui il cacciatore è messo a morte dai suoi cani e «da quel ch'era un uom volgare e commune, dovien raro ed eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordinaria vita. […] qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sensuale, cieco e fantastico, e comincia a vivere intellettualmente; vive vita de dei, pascesi d'ambrosia e inebriasi di nettare.»

Tale esperienza di realizzazione piena della nostra umanità è resa possibile dal venir meno dell'atteggiamento irreligioso di separazione che contrappone l'individuo a ciò che è fuori e altro da sé (provvisto di occhi per vedere, padrone di sé, non più estraneo all'altro, il furioso eroico ha pensieri soltanto per le cose divine e vede soltanto la divina armonia insita in ogni cosa).

Ricordiamo, infine, che il percorso del furioso [furor, in latino, significa: rabbia, pazzia, rivolta, impeto, desiderio, passione amorosa, delirio, divina ispirazione, entusiasmo, furore profetico, spirito ardente] non è caratterizzato dal venir meno delle contrarietà, delle difficoltà, dei dubbi, dei pericoli di consumarsi come una farfalla attratta dalla fiamma della candela. La ricerca avviene infatti sotto l'insegna di Amore, che è per sua natura ambiguo, povero e insieme ricco di espedienti. Tale condizione esistenziale rassomiglia al martirio, è una piaga che mai si rimargina, poiché l'inestinguibile desiderio di congiungersi al divino mai consegue il suo fine. Ma questo slancio, questa tensione, questa veemente aspirazione rendono degna, eroica e nobile la vita; sicché il furioso – che i più giudicano infelice – ringrazia Amore per i tormenti subiti.

Il Furore è un impeto razionale, un amore che supera ogni ostacolo, in tutto simile all'amore della Sulamita del Cantico di Salomone. Tale entusiasmo non porta all'oblio di sé, come invece avviene nella profezia e nell'invasamento poetico. Questa ricerca è realizzazione della propria individuale natura e, insieme, desiderio di elevarsi rendendosi degno della cosa amata.

Il biblico Cantico di Salomone – scrive Bruno – è la fonte degli Eroici Furori e l'argomento è il medesimo. La stessa ardente passione amorosa è espressa nel Cantico attraverso la figura della Sulamita che ricerca il suo amato. Osculetur me osculo oris sui (Oh se Lui mi baciasse con i baci della sua Bocca).




Testi consigliati:
G. Bruno, Dialoghi italiani, a c. di G. Aquilecchia, Firenze, 1985
N. Ordine, La soglia dell'ombra, Venezia, 2003
F.A. Yates, Art of Memory, London 1966
F.A. Yates, Bruno and the Hermetic Tradition, London 1964
M. Fishbane, La morte per bacio.Morte spirituale e morte mistica nella tradizione ebraica, 2002
M. Panetta, "Il mito di Atteone negli Eroci Furori di G. Bruno", (art. disponibile in Rete)
I. Škamperle, "Le dee vergini", (I quaderni del Ramo d'oro on-line, n. 3, anno 2010)