1.
Premessa
L’opera
intitolata Cantus Circaeus, pubblicata da Giordano Bruno a
Parigi nel 1582, richiede al lettore di farsi parte attiva nella
ricerca dei collegamenti interni, dei sensi riposti,
delle cifre interpretative intorno a cui costruire una lettura
compiuta e coerente. Per il suo ricco apparato simbolico, per la
dichiarata volontà dell’autore di lasciare nell’ombra il nucleo
vivo, filosofico e pregnante del suo discorso, questo lavoro dedicato
al conoscere memorativo si offre come un testo “aperto” e
plurivoco, suscettibile di interpretazioni molteplici. Del resto,
basta ripercorrere sommariamente le vicende della
sua ricezione per
rendersi conto di quali svisamenti,
condanne e perplessità il Canto di Circe abbia
suscitato, al punto da rendere assai controversa la sua collocazione:
per taluni era opera dedicata alla magia ermetica, per altri una
satira irriverente del papa e della corruzione ecclesiastica, per
altri ancora una prassi della memoria di difficile applicazione.
Esteriormente
l’opera si presenta come una giustapposizione di due dialoghi: il
primo (che chiameremo per brevità Canto) descrive la magica
metamorfosi operata da Circe per ristabilire le leggi di natura
e per rinnovare il vincolo di verità fra
apparenza ed essenza; il secondo contiene il metodo per applicare
l’arte della memoria al Canto. E proprio nelle battute
iniziali di questo secondo dialogo, Giordano Bruno si rivolge per via
mediata al lettore, dando indicazioni su come questo libro dal
carattere duplice (di un «duplex de cantu Circaeo et eius ad memoriæ
Artem applicatione dialogus» parla la lettera dedicatoria) possa
essere inteso. L’allievo Alberico osserva infatti che la lettura,
appena conclusa, dell’incantesimo circeo ha purtroppo consumato la
maggior parte del tempo assegnato allo studio dell’arte memorativa;
per questo motivo, egli vorrebbe senz’altro rinunziare alla fatica
d’intendere i sensi allegorici celati nelle profondità del Canto,
per imprimere invece nella mente – utilizzando le mirabili
strategie mnemoniche insegnate da Giordano – la molteplicità di
eventi che costituisce la forma esteriore del dialogo. Il maestro
Borista ben volentieri lo asseconda, proponendo di leggere e
commentare un’esposizione applicativa dell’Arte, concepita per
quegli
studiosi che trovano oscuro e
inaccessibile l’insegnamento
mnemotecnico che Giordano ha affidato al libro Sulle ombre delle
idee. Esiste, insomma, un agile manuale che rende
accessibile a tutti la nuova ed efficacissima prassi del giudizio e
della memoria. Queste parole di Bruno-Borista ci trasmettono
indicazioni che meritano attenta valutazione. In primo
luogo, testimoniano il bisogno di far fronte alle critiche
degli allievi parigini che, desiderosi di ottenere rapidamente i
vantaggi promessi dall’arte della memoria, giudicano astratte e
criptiche le spiegazioni filosofiche di Bruno – quegli stessi
allievi che avevano alterato e imbrattato («vitiata et
conspurcata») le copie manoscritte del Canto fatte
circolare da Bruno. In secondo luogo, le parole del maestro Borista
suggeriscono all’avveduto lettore di adoperarsi per scoprire
ulteriori strutture e livelli di significato.
Il punto di
partenza di questo nostro lavoro dedicato
al Cantus Circaeus
è la convinzione che in questo duplice dialogo (insieme
filosofico e mnemotecnico) Circe stessa – la figlia del Sole che
invoca le divinità planetarie e poi innalza «carmi barbari e
arcani», per arginare il chaos distruttore di ogni modus,
ogni limite, ogni connexio – agisca come una icastica figura
della memoria bruniana, in cui sono contratte ed esemplate
luminose intuizioni filosofiche. In questa prospettiva, è possibile
leggere il Cantus Circaeus come una composizione unitaria, in
cui si intrecciano in forma di contrappunto la voce numinosa di Circe
e le voci di Borista e Alberico, i cultori di un sapere innovativo ed
effettuale, il cui esito eminente è lo straordinario potenziamento
della memoria. Emergono così profonde connessioni fra la magia
ordinatrice di Circe e la «nova filosofia» di Bruno, espressione di
un uomo formatore e costruttore di civiltà, in lotta contro le
potenze disgregatrici del tempo (il caos delle guerre di religione,
la violenza dilagante, il sapere sterile dei pedanti). Come Circe,
levando il suo sguardo all’unico Sole, ristabilisce coerenza e
unità nel mondo, così il filosofo distoglie il suo occhio dalla
superficie cangiante dei fenomeni, per cogliere l’unità essenziale
che sta al fondo di ogni pluralità.
Procedendo per
rapidissimi cenni, ci limitiamo qui a segnalare come Bruno, per
illustrare la sua arte memorativa, ricorra a una figura del mito
ricca di significazioni e ben nota ai suoi contemporanei (la Signora
delle fiere, Circe esperta d’inganni e di pozioni, la seduttrice,
la tessitrice dal canto soave), trasfigurandola e arricchendola di
profonde valenze filosofiche. Nel Canto, Circe ha il compito
di rappresentare in figura la natura intesa come «grande maga»,
come materia che tutto genera e dissolve e – a nostro avviso –
come forza che tiene insieme il
mondo e ne impedisce la
disgregazione, levando alta la sua voce contro il chaos.
Il cultore della
memoria deve dispiegare una simile capacità ordinatrice, imparando
in primo luogo a vedere oltre l’apparenza. Il Cantus Circaeus
è interamente costruito sul tema dello sguardo e del suo continuo
rovesciamento: dalla corteccia al midollo, dalla superficie
all’essenza, dai molti all’Uno, dal chaos irrelato
all’ordine implicito. Ma per poter guardare il mondo con occhi
nuovi, l’artefice della memoria deve produrre una metamorfosi nella
sua stessa interiorità: dapprima riconoscendo lo stato di torpore e
passività che affligge la sua mente, sedotta da innumerevoli
impressioni sensibili e da proteiformi immagini fantastiche; poi
costruendo in sé stesso un principio egemonico e ordinatore, un Sole
irraggiante che connetta tutto con tutto. Come i compagni d’Ulisse
vittime dell’incanto circeo, l’amante del vero e del bene deve
riconquistare la sua umanità.
Soltanto
in anni recenti, grazie al
lavoro critico
ed esegetico di
Michele
Ciliberto
e degli studiosi che lo affiancano, le
opere mnemotecniche di Bruno hanno
suscitato
l’interesse
che meritano. In particolare, nel
nostro tentativo di intendere la figura di Circe e l’arte
della memoria,
abbiamo ricavato illuminanti
suggestioni
dalle
ricerche di Nicoletta Tirinnanzi, S.
Bassi; dal saggio curato da M.
Matteoli e
R.
Sturlese, Il
Canto
di Circe
e la ‘magia’ della nuova
arte della memoria del Bruno
(come
opportunamente evidenziato
nelle
note bibliografiche).
Rimane
a nostro avviso fondamentale, per
comprendere
il
significato
di
Diana e di
Circe
nella filosofia nolana,
l’opera
di I.P.
Couliano, Eros
et magie à la Renaissance.
Da ultimo, un
accenno al latino utilizzato da Bruno. Dissentendo da quanto hanno
affermato in passato alcuni studiosi, riteniamo che la prosa latina
di Bruno sia straordinariamente viva ed estrosa, davvero
efficace nell’evocare il prodigio circeo. Una lingua personale e
libera, ricca di dissonanze, lontana dal formalismo dei pedanti.
2.
L’Uno e i molti
Che ne è della giusta misura assegnata
alle cose? e dove sta, in natura, il limite che separa il lecito
dall’illecito1?
Queste sono le domande che Circe, dea e figlia del Sole, pone nel
primo dei due dialoghi che compongono il Cantus Circaeus,
un trattato davvero singolare – per intreccio di temi e per
sviluppo – pubblicato da Giordano Bruno a Parigi nel 1582, e
dedicato all’illustrazione della sua arte memorativa.
Rivolgendosi al Sole, espressione
visibile del principio unitario che governa l’immensa varietà
delle cose, Circe lamenta il disordine universale: la realtà è
sovvertita da un profondo dissidio, è messa sottosopra da un chaos
lacerante ed evidentissimo (minime occultum chaos), al punto
che nulla è come dovrebbe essere e nulla si mostra per ciò che
veramente è. Nell’età della decadenza e dell'anomia, ogni
accadimento si inscrive nella logica dell’ipocrisia, della
dismisura. Ecco allora che ogni segno esteriore contraddice
l’interiorità: persino i corpi umani sono degradati a ciechi
involucri attraverso cui schiere
di anime bestiali, che
indegnamente se ne appropriano, diffondono iniquità e menzogna.
Nella folla innumerevole degli esseri dal volto umano, vi sono oramai
pochissimi veri uomini.
Qui il lamento di Circe fa immediatamente
pensare alle guerre civili di religione, alle sanguinose
lacerazioni, alle inaudite violenze che sconvolgono l’Europa nel
secondo Cinquecento. Se
la vergine Astrea ha definitivamente
abbandonato la dimora degli
uomini, se non vi è Giustizia né
misura («modus»)
nel mondo e in chi lo governa, c’è da chiedersi per quale motivo i
mari non si mescolino ai fuochi e gli astri lucenti non precipitino
nelle terre nere. Invocando l’intervento risolutore del Sole –
l’Apollo splendente, il fondamento della concordia universale,
l’occhio del mondo – Circe riformula la sua domanda: perché
madre natura ci fa patire una simile ipocrisia? Se un numero davvero
esiguo di anime razionali è stato plasmato, perché gli spiriti
ministeriali continuano a forgiare in soprannumero corpi che
hanno un sembiante umano? Un’empia ribellione, un processo di
dissoluzione, una rottura dei sigilli, un indebolirsi delle leggi che
secondo giustizia (iura rerum) dovrebbero governare le cose:
da tutto ciò scaturisce la barbarie che avvelena il consorzio
umano e con esso tutto il mondo naturale. Ebbene, prosegue Circe, il
Sole stesso vendichi tali atti di lesa maestà, permettendo alla
propria figlia di ricondurre il mondo nei giusti confini e di
restituire un aspetto bestiale ai corpi che nascondono anime
irrazionali.
Per
Circe,
infatti, esiste
un’unica via d’uscita: il
nesso di verità fra esteriorità e natura profonda, fra parte
e tutto,
fra parola
e cosa dev’essere
riaffermato;
per questo motivo la «dea
terribile dalla voce umana»
(così la dipinge Omero)
dispiega la virtù magica
con cui
è capace di sospendere e, all’occasione, di ristabilire le leggi
di natura.2
Questo
primo dialogo del Cantus
raffigura, con la forza di
immagini vivide e di
parole incisive, la
prodigiosa metamorfosi operata
da Circe per capovolgere l’apparenza
e restaurare la
connessione profonda di tutte le cose.
Qui l’omerica «dea trecce
belle» esercita
le sue prerogative di figlia
del Sole, agendo come una
forza che trattiene il mondo nei suoi cardini e ne impedisce lo
sfaldamento, come l’«occolta
armonica raggione» che
rinsalda
la trama invisibile e
l’armonia universali.
Con queste ultime considerazioni, ci
siamo già incamminati nella ricerca dei significati figurali (dei
sensi allegorici) di cui parlano Borista e Alberico, gli
interlocutori del dialogo secondo del Cantus, in cui si
applicano i precetti dell’ars memoriae. Per ammissione dello
stesso Bruno-Borista, il dialogo di Circe contiene molti significati
espliciti, impressi nella corteccia o superficie delle parole (multos
in ipso verborum cortice sensus explicitos); ma anche
innumerevoli sensi riposti, occultati e incisi nel midollo o profonda
essenzialità (intentiones quoque medullitus implicitas innumeras)
e non certo facili da cogliere (nec facile intelliges3
– mette in guardia Borista). Il grande affresco in cui
appare la statuaria figura di Circe, la signora di Aiaie, può essere
utilizzato come un testo denso di immagini e suggestioni, congegnato
sapientemente per l’applicazione delle strategie di memoria
insegnate da Bruno. Ma c’è molto di più. Bruno ci invita a
leggere il Cantus sovrapponendo il primo e il secondo dialogo,
intrecciando, come in un contrappunto di voci, varie linee e
profondità di significato. E allora la voce stentorea
di Circe si sovrappone a quella del cultore o artefice della memoria
che si misura con il phantasticum chaos, con l’infinito
potere generativo dell’immaginazione umana, con il compito di
cogliere la vivente unità al di sotto della luccicante apparenza
delle cose.
Nel De umbris idearum (opera coeva
al Cantus e dunque apparsa nel medesimo 1582 a Parigi, assieme
alla commedia Candelaio e al De architectura et complemento
artis Lullii), Giordano Bruno individua proprio
nella capacità di intravedere e contrarre nella propria mente la
connessione invisibile di tutte le cose, strutturata per gradi e
gerarchie, la pietra angolare di una superiore conoscenza:
Uno è ciò che
tutto definisce. Unico è lo splendore della bellezza in tutte le
cose. Un solo fulgore risplende nella varietà delle specie. E se lo
terrai a mente, metterai un oculare
così potente fra
i tuoi occhi e le cose universalmente visibili, che nulla
ti potrà sfuggire.4
L’occhio
sensibile coglie la superficie caotica della realtà, dove
ogni cosa appare come irrelata e dislogata; ma l’occhio della mente
è provvisto di un potentissimo oculare che evidenzia sinotticamente
ciò che sta nel grembo stesso della realtà. Riteniamo
che proprio questa visione sinottica, capace di cogliere il mondo
come multicolore unità, sia la condizione aurorale, primaria e
fondativa, della gnoseologia nolana. E tale via conoscitiva percorre
una scala ascensiva che conduce da ciò che è imperfetto e
frammentario a ciò che è più ricco d’essere e di relazioni, ab
imperfectis ad perfecta.
Al di sotto del chaos apparente,
un unico e medesimo principio vitale informa il mondo fisico e il
pensiero umano. Anticipando quanto cercheremo di argomentare nelle
prossime pagine, sottolineiamo qui che nel Cantus la superiore
capacità di memoria appare come l’esito di un nuovo metodo
conoscitivo che – imitando la natura e la magia del vincolo solare
di Circe – crea nel mondo logico architetture e simmetrie, governa
il chaos delle percezioni sensibili e delle rappresentazioni,
instancabilmente riconduce la multiforme e frammentaria varietà
degli enti logici al loro principio unitario. Il conoscere
memorativo di Giordano Bruno si configura come un sapere
architettonico, cioè un’arte delle arti, una logica
inventiva-combinatoria-ordinativa che consente di esaminare e
perfezionare i principi di tutte i saperi particolari.
La memoria ben ordinata diventa a sua
volta il supporto e la «discursiva architectura» in cui si
innestano ulteriori conoscenze. Il supporto e i dati che in esso
incessantemente si imprimono si influenzano a vicenda. Ogni
parte dialoga con il tutto e, come in uno specchio vivente, illumina
significati sempre nuovi. La conoscenza memorativa di Bruno non è
pertanto una semplice mnemotecnica, ossia un insieme ben congegnato
di artifizi capaci di rafforzare la naturale disposizione al ricordo;
è per contro un’arte del giudizio e della connessione, che
consente, da un lato, di smascherare le false credenze e, dall’altro,
di edificare un sapere innovativo.
3.
La corteccia e il midollo
Ma torniamo alla «saga», lungimirante,
preveggente Circe che col suo canto demolisce ogni ipocrisia.
Assistita dall’ancella Moeris, Circe invoca le sette divinità
planetarie e compie