Ars memorandi

Giordano Bruno e l'arte della memoria

domenica 23 marzo 2014

Il canto di Circe


Quando cerchiamo di avvicinarci al nucleo più profondo della filosofia di Giordano Bruno, ci imbattiamo in grandi immagini evocative, in possenti figure mitiche cui è affidato il compito di racchiudere una trama complessa di significati. È come se il discorso e la parola – giunti a un certo grado di astrazione - dovessero lasciare spazio alla visione e all'intuizione. Esplicitamente, Bruno ci ricorda che il filosofo è insieme poeta e pittore, poiché pensa e si esprime per immagini:


I filosofi sono in certo modo pittori e poeti, i poeti sono pittori e filosofi, i pittori sono filosofi e poeti; e reciprocamente i veri poeti, i veri pittori e i veri filosofi si stimano e ammirano. E infatti non è filosofo se non chi immagina e rappresenta [fingit et pingit], per cui non senza ragione si dice: “il pensare è un contemplare immagini mentali [phantasmata]”. (Explicatio triginta sigillorum, Londra 1583)

Questa poetica raggiunge esiti altissimi nel dialogo De gli eroici Furori, pubblicato a Londra nel 1585. Qui Bruno si serve delle parole per descrivere ventotto imprese, ossia immagini accompagnate da un motto. Le imprese sono seguite da un componimento poetico che guida il lettore-pittore-scultore alla comprensione del significato occulto dell'immagine. In questo dialogo c'è dunque uno stupefacente intarsio di poesia, pittura e intuizione filosofica (ossia ricerca del senso intimo, essenziale, occulto che le immagini svelano e insieme nascondono).



Michelangelo Merisi da Caravaggio, 
Narciso, Galleria Naz. d'Arte Antica,
Palazzo Barberini, Roma
L'immagine lascia intravedere – in ombre e riflessi – ciò che difficilmente l'uomo può capire. Vi è una sapienza divina che sfugge alle parole e alla possibilità umana di comprensione; ma da un fondo scuro, umbratile si stagliano i contorni di immagini che mettono l'uomo sulle tracce della verità. In questo nostro mondo - caratterizzato dalla commistione di luce e ombra, dal perenne fluire dei cambiamenti, dalla ruota della vicissitudine - null'altro possiamo vedere se non le ombre della divina luce e i riflessi della divina bellezza e verità (In orizonte quidem lucis et tenebrarum, nihil aliud intelligere possumus quam umbram).

Per intendere il concetto bruniano di umbra e 'proiezione' (termine, questo, che qui introduciamo per rendere meglio l'idea di azione congiunta di luce e ombra)  dobbiamo ricordare che il verbo italiano “adombrare” (latino ad-umbrare) esprime ancora oggi, nella nostra lingua corrente, la duplice natura dell'ombra, nei suoi significati di: 1) velare, togliere parzialmente alla vista, coprire d'ombra un oggetto e 2) descrivere con termini essenziali oppure disegnare i contorni di un oggetto (la parola latina adumbratio si può render con “abbozzo, rappresentazione schematica”).

Il pensiero e il ricordo presuppongono dunque l'immagine mentale: ed essa è gradazione di luce, proiezione, traccia, analogia, simulacro, visione, ombra. Occuparsi di arte della memoria significa imparare a creare, visualizzare e, soprattutto, concatenare immagini. 

J-B. Suvée, Invenzione del disegno, (part.), Groeningemuseum, Bruges
Si sa che, in epoca umanistico-rinascimentale, è assai diffusa la passione per le icone, gli emblemi e i simboli; per i sigilli, gli stemmi, i cammei e i talismani; per le grafie segrete e i geroglifici (nel loro significato di «lettere sacre incise»). Ma l'attitudine a pensare per ideogrammi e alla “pittura interiore” raggiungono esiti sorprendenti in Bruno e nella sua arte della memoria. L'ars memorativa di Bruno non è una semplice tecnica che potenzia la naturale disposizione al ricordo; è invece il tentativo di rispecchiare nella mente le idee che racchiudono l'essenza viva, profonda e divina delle cose. Contemplando tali immagini geroglifiche è possibile non solo ricordare, ma anche accrescere la propria conoscenza, per via di successive intuizioni.

Ebbene nei Furori - l'opera in volgare che abbiamo sin qui considerato come punto di partenza per lo studio della mnemotecnica bruniana - due possenti caratteri svettano, come principi di movimento da cui trae origine l'intera rappresentazione, come fili d'oro dell'ordito narrativo e concettuale. Si tratta di due figure della tradizione mitica che portano con sé secoli di interpretazioni, varianti e affabulazioni. Nel post precedente (Diana e Atteone), abbiamo visto come Bruno reinterpreti il mito del cacciatore Atteone, sottoponendolo a un'originalissima trasposizione di significato. Ora, un'altra figura si impone alla nostra attenzione: Circe, terribile dea e maga, figlia del Sole. Se Atteone rappresenta la condizione dell'uomo che si protende oltre la sua finitezza, Circe rappresenta quel principio (la prima materia che tutto costantemente genera e distrugge) che attrae l'uomo verso il basso. L'antro di Circe è quella condizione di oscurità, incantamento, dimenticanza di sé che travolge la grande parte dell'umanità. L'uomo non ha occhi per vedere e per questo si tormenta.

L'incontro fra Odisseo «ricco d'astuzie» e Kirke [Κìρκη] «la dea trecce belle» viene narrato nel libro decimo dell'Odissea. Per entrambi – su piani diversi e incommensurabili – l'incontro segna un evento significativo, che innesca vicende e conseguenze di ampia portata. L'immortale Circe incontra un uomo che non subisce l'incantesimo e smaschera i suoi raggiri: la coppa avvelenata e il colpo di bacchetta, che già avevano trasformato i compagni di Odisseo in porci, non sortiscono effetto. La dea «dai molti filtri [phàrmaka]» urla sbigottita, afferra le sue ginocchia, implora amicizia, fiducia e amore; perché lo riconosce: egli è «Odisseo l'accorto che doveva venire», come sempre le prediceva Ermete.
J.W. Waterhouse, Circe offre la coppa a Ulisse, 1891
Gallery Oldham, Greater Manchester, U.K.
Per Odisseo, eroe di stirpe mortale, l'incontro con la signora di Aiaie è punto di svolta ai fini del ritorno in patria. Con il decisivo concorso di Ermete, Odisseo si impone su Circe e il rapporto muta di segno: da ostile e oscura ammaliatrice, Circe diviene benigna protettrice, maga solare, dea ispiratrice che indica la rotta (discesa nel mondo infero e ritorno in patria).

Nei secoli, questo racconto ha originato grandi ricerche di 
senso, discussioni, contrapposizioni; da subito la schiera di quanti rimproveravano al poeta Omero leggerezza e superficialità nel parlare degli dei (divinità come Circe, che offrono il proprio letto a un mortale per un intero anno) si è contrapposta ai fautori di un'interpretazione allegorica [greco, allegoréuein: parlare di una cosa per significarne un'altra]. Per questi ultimi, il sapiente Omero racconta simili vicende – poco edificanti e piene di contraddizioni – adombrando sacre verità. 
Di generazione in generazione, il mito (mythos sta per parola e racconto) si arricchisce di significati e si stratifica: gli incantesimi di Circe, i suoi inganni, le pozioni e la degradante metamorfosi imposta a uomini inconsapevoli diventano immagine della trasmigrazione delle anime, del ciclo di morte e rinascita, della soggezione dell'anima ai sensi e alla corporeità, degli incantesimi velenosi che imprigionano le anime degli eretici, della seduzione e della malia erotica e – in tempi a noi più vicini - dell'eterno principio femminile.

Per far sì che Circe ci dischiuda un aspetto chiave della filosofia di Bruno, dobbiamo richiamare le narrazioni in cui la dea – che porta in sé, per via di generazione, il principio solare e il principio acquatico-lunare - è associata al governo del mondo materiale e delle forme sensibili.
Secondo una lettura diffusa nella tarda antichità da autori di orientamento neoplatonico e neopitagorico, la maga che tramuta i compagni di Odisseo in porci rappresenta quel principio di generazione che ciclicamente spinge le anime a reincarnarsi nei corpi di diversi animali. Tale forza generativa o prima materia, è anche caratterizzata da una brama insaziabile, che genera sempre nuovi individui e divora quelli esistenti. Per i singoli enti, essa è principio di generazione ma anche di dissoluzione, poiché ogni forma individuata deve presto lasciare spazio a un'altra forma. Il perenne fluire della cose; la ruota instancabile della vicissitudine, che porta in basso ciò che prima era in alto; l'impermanenza di ogni realtà nel mondo sensibile sono causa di oblio, cecità e ignoranza per le anime incarnate (si legga a questo proposito quanto afferma Proclo, autore del V secolo dopo Cristo, In Primum Alcibiadem, 110c).

E il veleno o coppa di Circe rappresenta proprio la seduzione, la malia,
Franz von Stuck, Circe, c.1913
 Alte Nationalgalerie Berlin
la fascinazione che le belle forme e i piaceri della realtà sensibile esercitano sulle anime. Generazione e corruzione agiscono per forza di incanto e di oblio. L'anima umana dimentica sé stessa e la propria patria divina; è sedotta, posseduta, irretita dalle forme cangianti del mondo sensibile. Destino analogo ai compagni d'Ulisse, rinchiusi in un porcile e oppressi da un acuto rimpianto cui non sanno dare un nome. È la nostalgia della perduta condizione di libertà e consapevolezza, da parte di chi subisce i condizionamenti della materia (il circolo, il recinto).

Circe ha dunque natura ambigua, ancipite: è il principio solare di generazione e armonia delle forme sensibili (simboleggiato dal suo canto melodioso e dalla sua abilità di tessitrice); è principio lunare-notturno (discende per via di madre da Oceano) di caduta, degenerazione, oblio, seduzione, incantamento.
Concludiamo sottolineando che queste dottrine di derivazione ermetica e neoplatonica permeano in profondità la nostra cultura, si ritrovano nei grandi trattati di magia e alchimia e ritornano alla superficie con vigore nell'epoca rinascimentale.  


Potente e suggestiva è la figura di Circe evocata da Bruno, in svariati passi delle sue opere. Come abbiamo visto, il processo di risveglio che consente all'amante della divina luce di emanciparsi dalla condizione di passività e di sogno, in cui vivono le moltitudini degli uomini, è rappresentato in immagine dal cacciatore Atteone. Ma sono molte le forze che si oppongono alla rinascita. È infatti necessario trasgredire un ordine naturale che vuole l'uomo come soggetto inerte e passivo del mondo sensibile, degli stati corporei, delle passioni, di una mente offuscata. A tale ordine sovrintende Circe, come Bruno illustra in un passo importante:


Infine, come se ci astenessimo dalle coppe avvelenate di Circe evitiamo che l'animo, sedotto dalle specie sensibili, finisca per fissarsi su di essa tanto da ignorare le delizie della vita intelligibile, e badiamo che l'animo, inebriato dal vino delle affezioni corporee e della volgare autorità, non dimori in perpetuo nella notte della presuntuosa ignoranza, e qui, agitato dai cattivi sogni di una turbata fantasia, si disperda e, contemplando il volto di Proteo, mai più ritrovi una specie convenientemente formata in cui aver riposo. [Explicatio Triginta Sigillorum, Quarta cautela]

T. de Bèze, Icones (1580). Emblema XIV
Ebbro, dormiente, sopraffatto da emozioni che lo atterriscono (il mostro marino Proteo), l'uomo fatica a ergersi come individuo consapevole, perché costitutivamente travolto dall'«ignobil numero». Il processo di ascesa verso la verità e la consapevolezza richiede al filosofo di sciogliersi dai vincoli della molteplicità oscura e priva di ordine. Per «sciocca e ignobilissima moltitudine» - osserva Bruno - deve intendersi in primo luogo il corpo, abitato da una pluralità di emozioni, sensazioni, bisogni che si combattono senza tregua; da un punto di vista esteriore, invece, la pluralità indistinta caratterizza gli uomini condannati a vivere – per «occolta armonica ragione» - nell'inconsapevolezza, nella più cupa illusione.

L'uomo eroico vive il destino luminoso di Atteone: egli muore alla vita ordinaria e dispersiva, per rinascere alla contemplazione del vero; smette di bere i calici avvelenati di Circe e perciò ritrova, in sé stesso e nel mondo circostante, il principio di Unità, bellezza e armonia che è l'Essenza vera. Potremmo dire che Atteone ha occhi per vedere il mondo e sono occhi estatici, pieni di gratitudine per l'indicibile bellezza. La Natura gli appare come Diana, come ombra di Dio nelle cose. Tutto è pervaso di vita e bellezza; in tutto si manifesta l'Uno.

In ogni cosa – scrive Bruno – il furioso «illuminato» vede «la divina e interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria delle legge insita in tutte le cose»:


Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando ed urtando or in questo, or in quell'altro fosso, or a questo or a quell'altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa, or in quell'altra faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar l' armonia vince e supera gli orrendi mostri [...] e sotto l'imagini sensibili e cose materiali va comprendendo divini ordini e consegli. [Furori, Parte prima, Dialogo terzo]

Il percorso che dall'oscurità conduce alla luce è rappresentato dalla vicenda dei nove giovani innamorati (protagonisti dell'ultimo dialogo degli Eroici Furori; Parte seconda, dialogo V), «or vedenti, or ciechi, or illuminati». Il primo dei vasi fatali che essi ricevono in sorte da Circe contiene un'acqua (le acque inferiori) che li accieca e li costringe a vagare per dieci anni, «ciechi raminghi e infortunatamente laboriosi». Ma Circe dona loro un secondo vaso, che contiene le acque che illuminano, provenienti dalla regione superiore del firmamento. La maga può solo consegnare, ma non aprire questo vaso. Dopo anni di peregrinazioni (ossia di ricerca e ascesi), il benefico intervento di una ninfa (cioè il favore divino) dischiude il vaso e restituisce ai giovani una vista più potente e limpida di quella che avevano perduto. 


Nella loro condizione di veggenti, i giovani contemplano l'armonia universale, il moto dei mondi, le opere della natura e finalmente riconoscono nell'opera della «diva» Circe una manifestazione della divina provvidenza che – muovendo la ruota dei contrari: giorno e notte, giovane e vecchio, freddo e caldo, luminoso e oscuro – consente «l'alta e magnifica vicissitudine». La vicissitudine non è più intesa come un cieco fluire, come un insensato divenire; la vicissitudine è quel processo che

agguaglia l'acqui inferiori alle superiori, cangia la notte col giorno, ed il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l'infinita bontà infinitamente si communiche secondo tutta la capacità de le cose.[Furori, Argomento e allegoria del quinto dialogo]

Attraverso la perenne vicissitudine, ciò che era in alto viene in basso, la notte si fa giorno e Dio si manifesta, facendosi natura e vincolo universale. 





La figura di Circe compare anche nell'opera intitolata Cantus Circaeus, in cui Bruno illustra il suo personale contributo all'arte della memoria. Di essa ci occuperemo nei prossimi articoli. 




Riferimenti bibliografici: 


N. Tirinnanzi,"Note ai Testi", in G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a c. di M. Ciliberto, Milano, 2000 
A. M. Panzera, Caravaggio, G. Bruno e l'invisibile natura delle cose, Roma, 2011
C. Franco e M. Bettini, Il mito di Circe, Torino, 2010
G. Bruno, Explicatio triginta sigillorum, in Opera latine conscripta, 3 voll. Neapoli, 1879-1891

N. Ordine, La soglia dell'ombra, Venezia, 2003