Ars memorandi

Giordano Bruno e l'arte della memoria

lunedì 16 ottobre 2017

Natura, magia e memoria nel 'Canto di Circe' di Giordano Bruno


1. Premessa

L’opera intitolata Cantus Circaeus, pubblicata da Giordano Bruno a Parigi nel 1582, richiede al lettore di farsi parte attiva nella ricerca dei collegamenti interni, dei sensi riposti, delle cifre interpretative intorno a cui costruire una lettura compiuta e coerente. Per il suo ricco apparato simbolico, per la dichiarata volontà dell’autore di lasciare nell’ombra il nucleo vivo, filosofico e pregnante del suo discorso, questo lavoro dedicato al conoscere memorativo si offre come un testo “aperto” e plurivoco, suscettibile di interpretazioni molteplici. Del resto, basta ripercorrere sommariamente le vicende della
sua ricezione per rendersi conto di quali svisamenti, condanne e perplessità il Canto di Circe abbia suscitato, al punto da rendere assai controversa la sua collocazione: per taluni era opera dedicata alla magia ermetica, per altri una satira irriverente del papa e della corruzione ecclesiastica, per altri ancora una prassi della memoria di difficile applicazione.
Esteriormente l’opera si presenta come una giustapposizione di due dialoghi: il primo (che chiameremo per brevità Canto) descrive la magica metamorfosi operata da Circe per ristabilire le leggi di natura e per rinnovare il vincolo di verità fra apparenza ed essenza; il secondo contiene il metodo per applicare l’arte della memoria al Canto. E proprio nelle battute iniziali di questo secondo dialogo, Giordano Bruno si rivolge per via mediata al lettore, dando indicazioni su come questo libro dal carattere duplice (di un «duplex de cantu Circaeo et eius ad memoriæ Artem applicatione dialogus» parla la lettera dedicatoria) possa essere inteso. L’allievo Alberico osserva infatti che la lettura, appena conclusa, dell’incantesimo circeo ha purtroppo consumato la maggior parte del tempo assegnato allo studio dell’arte memorativa; per questo motivo, egli vorrebbe senz’altro rinunziare alla fatica d’intendere i sensi allegorici celati nelle profondità del Canto, per imprimere invece nella mente – utilizzando le mirabili strategie mnemoniche insegnate da Giordano – la molteplicità di eventi che costituisce la forma esteriore del dialogo. Il maestro Borista ben volentieri lo asseconda, propo­nendo di leggere e commentare un’esposizione applicativa dell’Arte, concepita per quegli studiosi che trovano oscuro e

inaccessibile l’insegnamento mnemotecnico che Giordano ha affidato al libro Sulle ombre delle idee. Esiste, insomma, un agile manua­le che rende accessibile a tutti la nuova ed efficacissima prassi del giudizio e della memoria. Queste parole di Bruno-Borista ci trasmettono indicazioni che meritano attenta valutazione. In primo luogo, testimoniano il bisogno di far fronte alle critiche degli allievi parigini che, desiderosi di ottenere rapidamente i vantaggi promessi dall’arte della memoria, giudicano astratte e criptiche le spiegazioni filosofiche di Bruno – quegli stessi allievi che avevano alterato e imbrattato («vitiata et conspurca­ta») le copie manoscritte del Canto fatte circolare da Bruno. In secondo luogo, le parole del maestro Borista suggeriscono all’avveduto lettore di adoperarsi per scoprire ulteriori strutture e livelli di significato.
Il punto di partenza di questo nostro lavoro dedicato al Cantus Circaeus è la convin­zione che in questo duplice dialogo (insieme filosofico e mnemotecnico) Circe stessa – la figlia del Sole che invoca le divinità planetarie e poi innalza «carmi barbari e arcani», per arginare il chaos distruttore di ogni modus, ogni limite, ogni connexio – agisca come una icastica figura della memoria bruniana, in cui sono contratte ed esem­plate luminose intuizioni filosofiche. In questa prospettiva, è possibile leggere il Cantus Circaeus come una composizione unitaria, in cui si intrecciano in forma di contrappunto la voce numinosa di Circe e le voci di Borista e Alberico, i cultori di un sapere innovativo ed effettuale, il cui esito eminente è lo straordinario potenziamento della memoria. Emergono così profonde connessioni fra la magia ordinatrice di Circe e la «nova filosofia» di Bruno, espressione di un uomo formatore e costruttore di civiltà, in lotta contro le potenze disgregatrici del tempo (il caos delle guerre di religione, la violenza dilagante, il sapere sterile dei pedanti). Come Circe, levando il suo sguardo all’unico Sole, ristabilisce coerenza e unità nel mondo, così il filosofo distoglie il suo occhio dalla superficie cangiante dei fenomeni, per cogliere l’unità essenziale che sta al fondo di ogni pluralità.
Procedendo per rapidissimi cenni, ci limitiamo qui a segnalare come Bruno, per illustrare la sua arte memorativa, ricorra a una figura del mito ricca di significazioni e ben nota ai suoi contemporanei (la Signora delle fiere, Circe esperta d’inganni e di pozioni, la seduttrice, la tessitrice dal canto soave), trasfigurandola e arricchendola di profonde valenze filosofiche. Nel Canto, Circe ha il compito di rappresentare in figura la natura intesa come «grande maga», come materia che tutto genera e dissolve e – a nostro avviso – come forza che tiene insieme il mondo e ne impedisce la disgregazione, levando alta la sua voce contro il chaos.
Il cultore della memoria deve dispiegare una simile capacità ordinatrice, imparando in primo luogo a vedere oltre l’apparenza. Il Cantus Circaeus è interamente costruito sul tema dello sguardo e del suo continuo rovesciamento: dalla corteccia al midollo, dalla superficie all’essenza, dai molti all’Uno, dal chaos irrelato all’ordine implicito. Ma per poter guardare il mondo con occhi nuovi, l’artefice della memoria deve produrre una metamorfosi nella sua stessa interiorità: dapprima riconoscendo lo stato di torpore e passività che affligge la sua mente, sedotta da innumerevoli impressioni sensibili e da proteiformi immagini fantastiche; poi costruendo in sé stesso un principio egemonico e ordinatore, un Sole irraggiante che connetta tutto con tutto. Come i compagni d’Ulisse vittime dell’incanto circeo, l’amante del vero e del bene deve riconquistare la sua umanità.
Soltanto in anni recenti, grazie al lavoro critico ed esegetico di Michele Ciliberto e degli studiosi che lo affiancano, le opere mnemotecniche di Bruno hanno suscitato l’interesse che meritano. In particolare, nel nostro tentativo di intendere la figura di Circe e l’arte della memoria, abbiamo ricavato illuminanti suggestioni dalle ricerche di Nicoletta Tirinnanzi, S. Bassi; dal saggio curato da M. Matteoli e R. Sturlese, Il Canto di Circe e la ‘magia’ della nuova arte della memoria del Bruno (come opportunamen­te evidenziato nelle note bibliografiche). Rimane a nostro avviso fondamentale, per comprendere il significato di Diana e di Circe nella filosofia nolana, l’opera di I.P. Couliano, Eros et magie à la Renaissance.
Da ultimo, un accenno al latino utilizzato da Bruno. Dissentendo da quanto hanno affermato in passato alcuni studiosi, riteniamo che la prosa latina di Bruno sia straor­dinariamente viva ed estrosa, davvero efficace nell’evocare il prodigio circeo. Una lingua personale e libera, ricca di dissonanze, lontana dal formalismo dei pedanti.



2. L’Uno e i molti
Che ne è della giusta misura assegnata alle cose? e dove sta, in natura, il limite che separa il lecito dall’illecito1? Queste sono le domande che Circe, dea e figlia del Sole, pone nel primo dei due dialoghi che compongono il Cantus Circaeus, un trattato davvero singolare – per intreccio di temi e per sviluppo – pubblicato da Giordano Bruno a Parigi nel 1582, e dedicato all’illustrazione della sua arte memorativa.
Rivolgendosi al Sole, espressione visibile del principio unitario che governa l’immensa varietà delle cose, Circe lamenta il disordine universale: la realtà è sovvertita da un profondo dissidio, è messa sottosopra da un chaos lacerante ed evidentissimo (minime occultum chaos), al punto che nulla è come dovrebbe essere e nulla si mostra per ciò che veramente è. Nell’età della decadenza e dell'anomia, ogni accadimento si inscrive nella logica dell’ipocrisia, della dismisura. Ecco allora che ogni segno esteriore contraddice l’interiorità: persino i corpi umani sono degradati a ciechi involucri attra­verso cui schiere di anime bestiali, che indegnamente se ne appropriano, diffondono iniquità e menzogna. Nella folla innumerevole degli esseri dal volto umano, vi sono oramai pochissimi veri uomini.
Qui il lamento di Circe fa immediatamente pensare alle guerre civili di religione, alle sanguinose lacerazioni, alle inaudite violenze che sconvolgono l’Europa nel secondo Cinquecento. Se la vergine Astrea ha definitivamente abbandonato la dimora degli uomini, se non vi è Giustizia né misura («modus») nel mondo e in chi lo governa, c’è da chiedersi per quale motivo i mari non si mescolino ai fuochi e gli astri lucenti non precipitino nelle terre nere. Invocando l’intervento risolutore del Sole – l’Apollo splen­dente, il fondamento della concordia universale, l’occhio del mondo – Circe riformula la sua domanda: perché madre natura ci fa patire una simile ipocrisia? Se un numero davvero esiguo di anime razionali è stato plasmato, perché gli spiriti ministeriali conti­nuano a forgiare in soprannumero corpi che hanno un sembiante umano? Un’empia ribellione, un processo di dissoluzione, una rottura dei sigilli, un indebolirsi delle leggi che secondo giustizia (iura rerum) dovrebbero governare le cose: da tutto ciò scaturi­sce la barbarie che avvelena il consorzio umano e con esso tutto il mondo naturale. Ebbene, prosegue Circe, il Sole stesso vendichi tali atti di lesa maestà, permettendo alla propria figlia di ricondurre il mondo nei giusti confini e di restituire un aspetto bestiale ai corpi che nascondono anime irrazionali.
Per Circe, infatti, esiste un’unica via d’uscita: il nesso di verità fra esteriorità e natura profonda, fra parte e tutto, fra parola e cosa dev’essere riaffermato; per questo motivo la «dea terribile dalla voce umana» (così la dipinge Omero) dispiega la virtù magica con cui è capace di sospendere e, all’occasione, di ristabilire le leggi di natura.2 Questo primo dialogo del Cantus raffigura, con la forza di immagini vivide e di parole incisive, la prodigiosa metamorfosi operata da Circe per capovolgere l’apparenza e restaurare la connessione profonda di tutte le cose. Qui l’omerica «dea trecce belle» esercita le sue prerogative di figlia del Sole, agendo come una forza che trattiene il mondo nei suoi cardini e ne impedisce lo sfaldamento, come l’«occolta armonica raggione» che rinsalda la trama invisibile e l’armonia universali.


Con queste ultime considerazioni, ci siamo già incamminati nella ricerca dei significati figurali (dei sensi allegorici) di cui parlano Borista e Alberico, gli interlocutori del dialogo secondo del Cantus, in cui si applicano i precetti dell’ars memoriae. Per ammissione dello stesso Bruno-Borista, il dialogo di Circe contiene molti significati espliciti, impressi nella corteccia o superficie delle parole (multos in ipso verborum cortice sensus explicitos); ma anche innumerevoli sensi riposti, occultati e incisi nel midollo o profonda essenzialità (intentiones quoque medullitus implicitas innumeras) e non certo facili da cogliere (nec facile intelliges3 mette in guardia Borista). Il gran­de affresco in cui appare la statuaria figura di Circe, la signora di Aiaie, può essere utilizzato come un testo denso di immagini e suggestioni, congegnato sapientemente per l’applicazione delle strategie di memoria insegnate da Bruno. Ma c’è molto di più. Bruno ci invita a leggere il Cantus sovrapponendo il primo e il secondo dialogo, intrec­ciando, come in un contrappunto di voci, varie linee e profondità di significato. E allo­ra la voce stentorea di Circe si sovrappone a quella del cultore o artefice della memoria che si misura con il phantasticum chaos, con l’infinito potere generativo dell’immagi­nazione umana, con il compito di cogliere la vivente unità al di sotto della luccicante apparenza delle cose.
Nel De umbris idearum (opera coeva al Cantus e dunque apparsa nel medesimo 1582 a Parigi, assieme alla commedia Candelaio e al De architectura et complemento artis Lullii), Giordano Bruno individua proprio nella capacità di intravedere e contrarre nella propria mente la connessione invisibile di tutte le cose, strutturata per gradi e gerarchie, la pietra angolare di una superiore conoscenza:

Uno è ciò che tutto definisce. Unico è lo splendore della bellezza in tutte le cose. Un solo fulgore risplende nella varietà delle specie. E se lo terrai a mente, metterai un oculare così potente fra i tuoi occhi e le cose universal­mente visibili, che nulla ti potrà sfuggire.4

L’occhio sensibile coglie la superficie caotica della realtà, dove ogni cosa appare come irrelata e dislogata; ma l’occhio della mente è provvisto di un potentissimo oculare che evidenzia sinotticamente ciò che sta nel grembo stesso della realtà. Riteniamo che proprio questa visione sinottica, capace di cogliere il mondo come multicolore unità, sia la condizione aurorale, primaria e fondativa, della gnoseologia nolana. E tale via conoscitiva percorre una scala ascensiva che conduce da ciò che è imperfetto e frammentario a ciò che è più ricco d’essere e di relazioni, ab imperfectis ad perfecta.
Al di sotto del chaos apparente, un unico e medesimo principio vitale informa il mondo fisico e il pensiero umano. Anticipando quanto cercheremo di argomentare nelle prossime pagine, sottolineiamo qui che nel Cantus la superiore capacità di memoria appare come l’esito di un nuovo metodo conoscitivo che – imitando la natura e la magia del vincolo solare di Circe – crea nel mondo logico architetture e simmetrie, governa il chaos delle percezioni sensibili e delle rappresentazioni, instancabilmente riconduce la multiforme e frammentaria varietà degli enti logici al loro principio unita­rio. Il conoscere memorativo di Giordano Bruno si configura come un sapere architet­tonico, cioè un’arte delle arti, una logica inventiva-combinatoria-ordinativa che consente di esaminare e perfezionare i principi di tutte i saperi particolari.

Le figure, i sigilli, le statue, le architetture, i paesaggi interiori inscritti nella memoria racchiudono in sé – come la Circe del nostro dialogo – una struttura vivente di nessi e di significati. Un cosmo interiore, in cui l’immaginazione, la ragione che pensa per immagini e la memoria eidetica sono il fondamento della conoscenza e dell’azione effettuali, misurate, virtuose.
La memoria ben ordinata diventa a sua volta il supporto e la «discursiva architectura» in cui si innestano ulteriori conoscenze. Il supporto e i dati che in esso incessantemen­te si imprimono si influenzano a vicenda. Ogni parte dialoga con il tutto e, come in uno specchio vivente, illumina significati sempre nuovi. La conoscenza memorativa di Bruno non è pertanto una semplice mnemotecnica, ossia un insieme ben congegnato di artifizi capaci di rafforzare la naturale disposizione al ricordo; è per contro un’arte del giudizio e della connessione, che consente, da un lato, di smascherare le false credenze e, dall’altro, di edificare un sapere innovativo.

3. La corteccia e il midollo
Ma torniamo alla «saga», lungimirante, preveggente Circe che col suo canto demolisce ogni ipocrisia. Assistita dall’ancella Moeris, Circe invoca le sette divinità planetarie e compie
con diligenza gli atti magico-cerimoniali («carmi barbari e arcani», suffumigi e purificazioni, vincoli e dissoluzioni, lamine incise, sigilli, note5), affinché in lei si contragga il potere d’imperio sulle forze naturali. In conclusione, svolto un rotolo di pergamena in cui sono impressi taluni simboli pregni di un’oscura e formidabile potenza, il cui mistero rimane ignoto ai mortali, l’incanto sortisce il suo portentoso effetto. Sotto gli occhi della Maga e della sua assistente, una massa scomposta di bestie si muove con rapidità, per trovare rifugio nello spazio vitale che gli compete: alcuni animali si gettano a precipizio nel mare, altri volano verso i rami robusti degli alberi oppure si insinuano in oscure caverne; le bestie d’indole più domestica si appressano al palazzo circeo. Pochi e sbigottiti, i veri uomini non sono toccati dall’incantesimo; mantengono inalterato il loro aspetto e corrono tremanti a cercare un nascondiglio. Moeris si sente minacciata da quelle belve terribili, la cui capacità di offendere è ora manifestata da artigli mortiferi, da unghie, denti, aculei, corna. Ma Circe benigna la invita a liberare l’animo da paure e indugi, perché è opportuno esaminare più dappres­so quegli animali. La pavidità di Moeris, peraltro, è frutto di poco giudizio: Circe le fa notare che, per quanto terrificanti, quegli esseri sono ora meno offensivi di quando agivano sotto mentite sembianze umane, servendosi della lingua tagliente e soprattutto della mano, l’organo che con versatile precisione può valersi di qualsiasi arma.
Avventurandosi nei territori che circondano il loro palazzo, maestra e allieva incontra­no una grande varietà di animali e ne esaminano le caratteristiche fisiche e il compor­tamento, con l’intento di risalire ai tipi umani corrispondenti. L’animale che per primo si offre alla loro vista è il porco, facilmente riconoscibile anche quando si cela sotto un uomo.6 E qui la maga presenta una ruota mnemonica di matrice lulliana, al cui interno vi sono lettere dell’alfabeto associate agli epiteti propri della natura porcina: A. avaro; B. barbaro; C. coperto di fango; D. duro; E. errante; F. fetido, G. goloso ecc. Qui Circe vuole ricordarci che il discorso gnomico e satirico ha valenze anche sul piano gnoseolo­gico: l’artista o artiere della memoria dovrà allo stesso modo affinare la propria capaci­tà di giudizio, per cogliere l’essenza nascosta che dà senso al molteplice e lo rende conoscibile, per connettere produttivamente l’esteriorità e l’interiorità (gli indizi e l’idea). D’altronde la memoria, in quanto arte, non è costituita da emblemi unificanti (le forme) che vengono inscritti negli spazi interiori ben ordinati (la materia)? Anche la memoria – come il grande affresco del Canto dominato dalla possente statua di Circe – svolge un discorso attraverso immagini unificanti, pregnanti, icastiche, evoca­tive, allusive.
Prosegue l’irridente e corrosiva indagine: «In quale modo», domanda Moeris, «avrei

potuto riconoscere sotto la figura umana codesta razza codarda di cani?» Si tratta di quella razza di barbari che condanna e aggredisce tutto ciò che non comprende, cioè – fuor di metafora – gli individui che difendono ostinatamente il sapere tradizionale e combattono aspramente ogni novità, per quanto benefica. Si avvicendano poi i muli, ovvero i figli di una madre giumenta e di un asino, condannati a mescolare il raglio al nitrito: i falsi filosofi, i vaniloquenti, i millantatori. E poi ancora: capri, scimmie, iene, cervi, elefanti e molti altri animali. Degni d’interesse i cammelli, che non traggono alcun diletto dalle cose pure e perciò si abbeverano solo dopo aver calpestato e intorbi­dato con gli zoccoli il fondo della sorgente; così sono gli uomini che inquinano le pure fonti del conoscere (sapientum monimenta) con sordidi commenti e glosse puerili. E noi possiamo immaginare che in groppa al cammello siedano i pedanti. Per Bruno, la pedanteria è l’atteggiamento di chi nega la filosofia e ogni autentico progresso umano. A questa schiera appartengono di diritto gli esangui commentatori di Aristotele; i professori insipienti e servili arroccati nelle università; i grammatici presuntuosi; e non da ultimo quei teologi che, del tutto incapaci di prestare orecchio allo spirito vivente, si affaticano sulla lettera dei sacri testi, fornendo argomentazioni alle dispute, agli scismi e ai conflitti armati.
Nella visione di Bruno, la «pedantaria» è un’espressione emblematica di un’età di vecchiaia e corruzione universali in cui le parole sono private del loro potenziale di verità, al punto che si attribuisce il nome di “filosofia” al vano strologare o alle dispute terminologiche. Insomma, i pedanti, prigionieri di una cultura votata allautoritarismo e all’irrigidimento dogmatico, sono i più fieri avversari della vita filosofica, che è in essenza un cammino di libertà.
A tutto ciò Bruno contrappone una prassi filosofica radicalmente alternativa: in quan­to imitatrice della natura, la «musa nolana» genera senza posa nuove forme linguisti­che e concettuali; tende alla differenziazione, alla crescente complessità, alla sovver­sione di alto e basso; celebra l’universale vicissitudine; abbatte le gerarchie; dissolve le illusioni dell’antropocentrismo. La matrice di questa “nova filosofia”la Natura – è per Bruno una grande maga, è arte vivente, è dedalea (cioè ingegnosa e ricca di risorse), è artefice del vincolo che annoda in trame invisibili l’infinità varietà degli elementi, agisce in virtù di una sapienza che dimora nel suo grembo (per insitam sibi sapientia agens)7insomma, una Natura che rassomiglia alla nostra Circe, alla divina tessitrice che incanta e governa gli elementi. Se Natura è fonte e sostanza delle arti, cioè di ogni forma di produttività, la «nolana filosofia» la asseconda, rivelandosi perciò massimamente vitale e feconda.
E, in questo quadro, qual è il compito dell’uomo? Dobbiamo in primo luogo notare che quella medesima sapienza che, discendendo dal principio fontale, eterno e immutabile s’irradia e rifrange nel mondo delle cose sensibili, si esprime nell’uomo come impulso generativo capace di creare manufatti, scienze, istituzioni e civiltà. Nel De umbris idearum, infatti, il Nolano descrive la sua arte (intesa a generare, a ordinare e a memorizzare le conoscenze) come un’attitudine dell’anima raziocinante in cui si espri­me un principio sovrabbondante di vita che si effonde in ogni parte dell’universo; un sole irraggiante che nell’uomo si esplica come mano, intelletto, memoria, tensione eroica verso l’infinito.
È proprio nello spazio umbratile della natura, nel luogo della mescolanza di luce e oscurità, che l’uomo può cogliere gli indizi dell’Uno. Persino nella più vile «minuzza­ria», in una pulce come nella più minuta parte dell’universo, è possibile intravedere una traccia del meraviglioso ordine implicato che fa dell’universo un unico grande animale.

In questa prospettiva, votarsi alla pedanteria significa separarsi dalla natura; significa rinunciare a ciò che è propriamente umano. Ora si comprende meglio il motivo per cui Bruno, «academico di nulla academia», contrappone la sua condizione di libertà alla condizione servile dei suoi detrattori, negatori della scienza e morti alla vita:

son libero in suggezione, contento in pena, ricco ne la necessitade e vivo ne la morte; [...] non invidio a quei che son servi nella libertà, han pena nei piaceri, son poveri ne le ricchezze e morti ne la vita, perché nel corpo han la catena che le stringe, nel spirto l'inferno che le deprime, ne l'alma l'errore che le ammala, ne la mente il letargo che le uccide; non essendo magnani­mità che le delibere, non longanimità che le inalze, non splendor che le illustre, non scienza che le avvive.8

Abbiamo dedicato ampio spazio a un tema, quello della pedanteria, che in un’opera “d’esordio” e strettamente dedicata all’arte della memoria, quale è il Cantus Circaeus, non è trattato esplicitamente: esso agisce tuttavia come ispirazione e presupposto polemico. Circe e Moeris, nell’esaminare i vari animali, smascherano le corrispondenti forme di corruzione morale e di pedanteria. Il pedante, che Bruno sbeffeggia già nel Candelaio9, l’esuberante commedia coeva al Cantus, è del resto una figura ricorrente nella letteratura rinascimentale; una figura che tuttavia assumerà nella concezione bruniana connotazioni assai originali, in quanto connessa all’idea di vecchiezza e consunzione del mondo. La sensazione di vivere nel tempo del decadimento estremo sembra agire come sfondo e presupposto della sua ansia di renovatio, di necessario ringiovanimento del mondo10.

Altri spunti illuminanti si possono ricavare dall’incanto circeo: fra questi, merita atten­ta considerazione il motivo genuinamente socratico del “silenismo”. I Sileni di Alcibiade sono descritti da Platone nel Simposio e riproposti da Erasmo negli Adagia. Nel tessere l’elogio di Socrate11, Alcibiade, che si presenta già ubriaco al simposio in casa di Agatone, lo paragona ai Sileni messi in mostra nelle botteghe degli scultori, ossia a quelle statuette lignee che presentano all’esterno la figura di un comico e sgraziato Sileno, ma, una volta aperte, rivelano all’interno immagini degli dei. Il Socrate esteriore, con i suoi occhi sporgenti, il naso camuso, le labbra grosse, rassomi­glia – aggiunge Alcibiade – anche al satiro Marsia. Ma questa è l’apparenza, dietro cui si nasconde la sua anima. Allo stesso modo, i discorsi di Socrate sono simili ai Sileni che si aprono; appaiono esteriormente ridicoli e plebei come le parole e le frasi di cui si rivestono: ci parlano infatti di asini da soma, fabbri, calzolai, conciapelli. Insomma, par che dicano sempre le solite quattro cose. Ma chi per caso li veda aperti e ne scorga le profondità, troverà che essi soli hanno una mente e contenuti divini e fini nobilissimi.
Ebbene, questo tema del capovolgimento, della natura ancipite (letteralmente: “a due teste”) della verità filosofica è un tratto essenziale della concezione nolana. Così si esprime Bruno, nello Spaccio de la bestia trionfante, pubblicato a londra nel 1584:

Cossì dumque lasciaremo la moltitudine ridersi, scherzare, burlare e vagheggiarsi su la superficie de mimici, comici et istrionici Sileni, sotto gli quali sta ricoperto, ascoso e sicuro il tesoro della bontade e veritade; come per il contrario, si trovano più che molti che, sotto il severo ciglio, volto sommesso, prolissa barba e toga maestrale e grave, studiosamente a danno universale conchiudeno l’ignoranza non men vile che boriosa, e non manco perniciosa che celebrata ribaldaria.12

Una tematica, questa, che Bruno riprende con accenti originali dai Sileni Alcibiadis di Erasmo da Rotterdam e che certo si riverbera in modo assai articolato nel Cantus Circaeus. Erasmo, dopo aver definito Cristo stesso un meraviglioso Sileno, introduce l’immagine dei praeposteri Sileni, i Sileni alla rovescia, cioè quegli individui che sotto apparenze degne (i titoli di grandezza, il potere, la ricchezza, la devozione religiosa, la pedantesca ostentazione del sapere) nascondono un animo spregevole. Aprendo questi Sileni, si scopre che una metamorfosi degradante e singolare è avvenuta nel loro inti­mo: non vi è traccia di coscienza né dignità umane. Non era arrivata a tanto la venefica Circe che, secondo quanto tramandano i poeti, degradava e trasformava gli uomini nella loro natura esteriore, ma non poteva togliere loro la ragione (mens):

Si silenum explicaveris intus suem aut leonem aut ursum aut asinum fortassis invenies. Ac diversum quiddam eveniet ei, quod de Circes veneficiis poetarum fabulis est proditum. Apud hanc enim ferarum figuram habebant, mentem hominis; isti sub humana specie plus quam belvam tegunt.13

Dischiudere-velare, aprire-occultare sono i due movimenti che contraddistinguono il lavoro filosofico di Bruno: lo sguardo silenico rende perspicua la verità che si cela nella sostanza delle cose14; l’ironia silenica riconsegna quella stessa verità al nascondimento, avvolgendola nelle pieghe delle allusioni o della parodia burlesca. L’ironia protegge una conoscenza che, come tale, non può essere spiegata o rivelata a tutti. Al contrario di quel che pensano i pedanti di ogni latitudine, la caccia della verità presuppone un’interiore trasformazione: la si conquista per via iniziatica, morendo a sé stessi e facendosi uno con l’oggetto del proprio amore. E questo sarà messo a tema negli Eroici Furori, pubblicati a Londra nel 1585.



4. Natura dedalea
Per quali motivi Bruno affida proprio a Circe il compito di porre rimedio alla discordia, all’inimicizia, alla sconnessura del mondo? Per tentare una risposta, dobbiamo sommariamente ricordare come Circe rappresenti un luogo dell’immaginario assai frequentato dagli autori occidentali, dall’antichità greca sino alla nostra contempora­neità (basti qui pensare a d’Annunzio e a Joyce). Il mito della maga esperta d’erbe e di inganni, che trasforma in porci i compagni di Odisseo, sembra racchiudere i sé – contratto ed esemplato – un plesso di significati che attraversa le epoche e si rivela strutturalmente aperto alle riletture e alle variazioni. Un intreccio di temi che può essere colto solo per immagini e in figura: il femminile e la seduzione; la commistione di elementi solari e lunari; l’inganno esercitato dal mondo sensibile; la duplice natura dell’uomo, che può farsi bestia o rendersi simile a un dio; lo stato di torpore, di oblio di sé, di stupore in cui vive l’uomo comune.
Tutto trae origine dal racconto omerico, ove Circe Eèa è rappresentata come dea e sovrana luminosa, figlia di Helios e dell’oceanina Perse, signora delle fiere, tessitrice dal canto soave, ingannatrice e incantatrice, amante e poi consigliera di Odisseo. Le sue istruzioni consentiranno a Odisseo di affrontare le prove decisive (le sirene, Scilla, la discesa nell’Ade).15 Una divinità femminile che ha caratteristiche chiaroscurali: certamente rappresenta un pericolo formidabile e tuttavia dà un apporto decisivo alla soluzione della vicenda, poiché accetta il suo fato e non trattiene Odisseo nella sua isola; si rivela infine generosa verso quegli uomini che aveva mutato in bestie.
A questa aurorale e originaria ambivalenza di significati (che pone la Signora degli animali e della metamorfosi a metà strada fra il mondo olimpio e il mondo ctonio, fra la luce e la notte) si sovrappongono le interpretazioni allegoriche di matrice neoplato­nica, che vedono nel suo potere seduttivo e trasformativo una personificazione delle forze naturali che incantano le anime, imprigionandole nel mondo sensibile e nel ciclo di morte-rinascita. Successivamente, la qualificazione divina e solare di Circe – ben presente in Omero – si affievolisce e poi s’offusca del tutto: Circe indossa le vesti di maga oscura e strega vendicativa, che irretisce gli uomini in uno stato di viziosa animalità. Andando per rapidi scorci storici, possiamo rievocare la cupa atmosfera che avvolge Circe nel poema virgiliano16, i gemiti delle belve e infine l’intervento del dio Nettuno, che impedisce a Enea l’approdo al Promontorio Circeo. E nelle Metamorfosi di Ovidio, Circe utilizza le arti magiche e il potere di alterare i corpi per vendicare le sue passioni ferite (episodi di Glauco e di Pico). Per tutto il Medioevo e sino alla secon­da metà del Quattrocento, il testo omerico non fu accessibile agli autori dell’Europa occidentale.17 Furono dunque le descrizioni degli autori latini, le citazioni indirette e le interpretazioni cristiano-medioevali a cristallizzare l’immagine di Circe.

Venendo al punto della nostra discussione, dobbiamo sottolineare il rinnovato e amplissimo interesse tributato a Circe da letterati, artisti e pittori di epoca rinascimen­tale, un interesse spesso collegato alla discussione sulla natura dell’anima e sulla contrapposizione in interiore homine fra bestialità, umanità e divinità (feritas, humanitas, divinitas). Alcune opere letterarie ripercorrono questo mito in chiave del tutto originale: fra queste spiccano l’Asino, l’incompiuto poema satirico di Machiavelli; la Circe, del filosofo e calzaiolo per professione Giovan Battista Gelli (qui i compagni d’Ulisse scelgono di rimanere animali); il Cantus Circaeus di Bruno18. Insomma, quando Bruno scrive, Circe era un personaggio molto noto, anche in quella Corte francese che egli aveva vivamente impressionato con la sua arte della memoria, otte­nendo la protezione di Enrico III e un prestigioso incarico d’insegnamento19.
Nel 1581, in occasione delle nozze del duca di Joyeuse, si rappresenta nella Corte di Francia il Ballet comique de la Reine, uno spettacolo che unisce musica, danza, canto e teatro, per inscenare lo scontro tra i principi del bene e del male (impersonato, quest’ultimo, da Circe). È un dramma mitologico, in cui le divinità olimpiche agiscono per riportare ordine e concordia nel mondo, per sciogliere gli incantesimi maligni delle guerre di religione che abbrutiscono gli uomini. Circe è sconfitta; la sua bacchetta (simbolo del potere di vincere la natura) viene consegnata a Enrico III, il monarca solare. L’emblema di Circe si arricchisce, in questo milieu culturale, di ulteriori conno­tazioni legate alla monarchia francese, ai suoi simboli, alla sua capacità di far fronte alle forze disgregatrici dell’ordine sociale. Con grande successo di pubblico, il Ballet si rappresenta per alcuni mesi e poi il testo viene mandato alle stampe nel 1582. Bruno, con la redazione del suo Cantus Circaeus, si inserisce in questo dibattito politico e culturale, ed esprime il proprio punto di vista sul bisogno di rigenerazione morale, politica e religiosa.

L’immaginazione nolana assimila e riorienta una secolare tradizione, trasformando una figura del mito in un emblema mnemonico che racchiude una densa concettualizzazione filosofica. Ora, come se ci ponessimo dinanzi a un’elaborata opera artistica che al tempo stesso ci attrae e ci inquieta, rivolgiamo lo sguardo alla Circe figurata dal Bruno, ben consapevoli del fatto che le prospettive d’osservazione sono plurime e che ognuna di esse illumina soltanto un ambito specifico di significati. Impossibile mettere a fuoco, in una visione d’insieme, la totalità delle prospettive: perché le pitture, le statue, i sigilli, i geroglifici, le geometrie interiori del Bruno hanno la capacità di adombrare intuizioni noetiche e architetture concettuali che si approfondiscono ad ogni sguardo.
A questi geroglifici Bruno si affida per ricondurre ad unità (ordinare, disporre, raccor­dare, richiamare ordinatamente alla coscienza) la massa sterminata di nozioni che egli ha affidato al libro interiore della memoria. La memoria è una galleria sterminata di immagini che è possibile osservare e decifrare in virtù di un pensiero anamnestico (che platonicamente «ricorda da sopra», ossia nella prospettiva unificante dell’essenza). Non c’è reminiscenza senza il potentissimo «oculare» che svela le connessioni profonde. Ancora: imitando Circe, l’artifex della memoria opera una peculiare reductio ad unum, in quanto riconduce la disgregata molteplicità delle cose irrelate al loro principio di unità e verità; emulando Circe, l’artista della memoria opera l’incanto della magia solare, annodando tutto con tutto, svelando la trama fittissima che organizza il molteplice.
Ordine implicato, mente e misura trasformano l’inanimato chaos di Anassagora in un cosmo vivente (Bruno accoglie l’idea, espressa fra gli altri da Tommaso e poi dal Cusano, per cui il termine “mente” viene dal “misurare”20). Nel De umbris idearum, Bruno si richiama proprio al filosofo greco Anassagora per contrapporre il chaos (una molteplicità priva di mente e di organizzazione) all’universo vivente, inteso come pluralità ordinata:

Il vero chaos di Anassagora è una varietà priva di ordine. Così dunque nella stessa varietà delle cose possiamo individuare un ordine mirabile, il quale, stabilendo la connessione dei supremi con gli infimi e degli infimi con i supremi, fa cospirare tutte le parti dell’universo nella bellissima figura di un unico grande animale (quale è il mondo); poiché una diversità tanto grande richiede un ordine altrettanto grande; e un ordine tanto grande richiede una diversità altrettanto grande. Nessun ordine si ritrova infatti dove non esiste alcuna diversità. 21

La logica memorativa di Bruno consente all’uomo di proseguire attivamente l’opera di Circe-Natura, ordinando il proprio mondo interiore, rendendo conoscibile e memora­bile ciò che inizialmente si presenta come un chaos ingovernabile. Nella sua condizio­ne naturale, l’uomo subisce passivamente le impressioni dei sensi e il fluire della fantasia; di qui la necessità di costruire in sé stessi un principio egemonico e ordinato­re. Si mostra qui con maggiore chiarezza il nesso fra la magia circea, la memoria e la conoscenza. Nella concezione bruniana, la magia è una forma privilegiata di conoscenza proprio perché riconosce quel principio di comunicazione universale (la vivente analogia degli enti, la scala naturale, la simmetria) che anima la stessa madre Natura. La magia è dunque un approccio conoscitivo che si traduce in capacità operati­va e permette all’uomo di intervenire nella trama di relazioni che sorregge i fenomeni. Richiamandosi all’arte solare di Circe (il cui potere deriva dal Sole-Apollo che è l’espressione visibile dell’Intelletto universale, del divino Architetto, dell’Uno in quanto armonia dei distinti), Bruno differenzia il proprio sapere effettuale, fecondo e riformatore da ogni pedanteria. Bruno ritiene di avere finalmente perfezionato un metodo che ottiene «con facilità quanto viene cercato per via teorica attraverso la logi­ca, la metafisica, la cabala, la magia naturale, le arti magne e brevi».22 C’è qui il riferi­mento al progetto grandioso di una lingua filosofica, di un sistema per intendere e combinare i concetti di ogni sapere particolare che in età rinascimentale aveva accomunato i cultori del lullismo, del neoplatonismo, dell’ermetismo, della letteratura cabalistica.23

Risulta evidente come la musa nolana ci suggerisca visioni che solo in modo congettu­rale e frammentario possono essere trasferite in un discorso logico-razionale. Di qui la necessità – per chi voglia commentare le opere di Bruno – di tornare “ricorsivamente” sugli stessi temi, ricercando una ridondanza di significati da cui sia possibile ricavare l’idea esplicativa. Fatte queste precisazioni, rinnoviamo ora il proposito di osservare Circe come un’immagine mnemonica che Bruno lascia agire nel Cantus, per “dare corpo” a intuizioni noetiche che si ramificano in ordini concettuali apparentemente separati: chaos e cosmo, varietà e unità, apparenza ed essenza, oblio e memoria, inde­terminazione e forma. Si tratta infatti di nodi concettuali complessi e fecondi, in cui i contrari si rovesciano l’uno nell’altro.
Negli Eroici Furori, Bruno dà esplicite indicazione al lettore: Circe che insieme illumina e accieca «significa la omniparente materia, et è detta figlia del Sole, perché da quel padre delle forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con l’aspersion de l’aqui, cioè con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armonica raggione, cangia il tutto»24. Circe è la materia che con moto inesausto genera e dissolve le cose di questo mondo, volendo dare esistenza a tutto l’essere possibile. È perciò una forza numinosa, al tempo stesso terribile e benigna. Nei limiti del mondo fisico, che è una mescidanza di luce e di tenebra, la generazione si esprime come un avvicenda­mento dei contrari: la ruota della vicissitudine, che scandisce l’alternanza di giorno e notte, di sopra e sotto, appare certamente vana e insensata, se considerata nella chiusa prospettiva del singolo ente; ma si appalesa come suprema giustizia nell’orizzonte del Tutto. Lungi dall’essere una semplice attitudine a ricevere dall’esterno l’anima e la misura (così come la cera riceve l’impronta del sigillo), la materia è vita infinita ed è l’espressione, sul piano della produttività fisica, dell’inesauribile Artefice cosmico.
E che ne è dell’uomo, in quanto partecipe sia del mondo fisico sia del mondo soprafisi­co? «Come inebriato da le tazze di Circe va cespitando e urtando or in questo, or in quell'altro fosso, or a questo or a quell'altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa, or in quell'altra faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e stabilirsi»25. L’atto della generazione (il «circeo incantesimo») fa smemora­re l’anima e la irretisce nella fantasmagoria del mondo sensibile, che è una sorta di recinto in cui prevalgono la lotta e la sopraffazione. L’uomo è sopraffatto dalla bellezza del mondo sensibile, ne è attratto al punto da dimenticare la sua patria celeste. Ma persino in questa condizione di smemoratezza è offerta una possibilità di illuminazio­ne: contemplando le ombre sensibili, l’uomo – egli stesso «umbra profunda» – può riconoscere nel fondo della propria anima i riflessi, i barlumi, gli indizi delle idee divine. La condizione umbratile in cui è confinata ogni esperienza umana segna un limite invalicabile; eppureper chi sappia educare il proprio occhio – l’ombra è anche una soglia e un passaggio (limen) verso un nuovo stato. L’ombra è una zona liminale in cui inizio e fine coincidono. Attraverso il graduale riconoscimento della consonante analogia di tutte le cose («harmonica consonanteque collatione»), l’anima intraprende il suo ascensus verso la luce ideale. Il furioso, posseduto dal nobile amore per il divino, guadagna a tratti il punto di vista della totalità e perciò comprende e infine celebra l’incanto circeo come esplicazione sul piano fisico della mens–mensura che regge l’universo.
Circe non è altro che la forza, tutta interna alla stessa natura, che secondo l’ordine del tempo rinnova e ringiovanisce il mondo: «Oh se piacesse al cielo» – si legge nei Furori – «che a questi tempi ne si fesse presente, come fu in altri secoli più felici, qualche saga Circe che con le piante, minerali, venefici et incanti era potente di mettere come il freno alla natura»26. La figlia del Sole è l’incantatrice somma, in quanto artefice di una magia dei contrari che imbriglia la potenza generativa del chaos (la sovrabbondanza di vita, la dismisura, la disgregazione prodotta dal tempo), imponendo ad essa la forma luminosa della Mente universale, che tutta si effonde in ogni luogo. Nessuno meglio della divina Tessitrice poteva rappresentare iconicamente una tale capacità di sciogliere e annodare.

Il chaos è inestinguibile e sempre risorge, in ogni ambito del mundus triplex. Come sappiamo, Bruno suddivide il grande mare dell’essere in tre ambiti: il mondo metafisico, il mondo fisico e il mondo logico (la mente dell’uomo, in cui si proiettano le ombre degli enti fisici, che a loro volta sono tracce e vestigi delle idee metafisiche). Ebbene, questi tre mondi sono pervasi in vario grado dalla luce divina che è proporzio­ne, bellezza, integrità, simmetria, ordine:

Ordine chaos physicum in pulchrum mundi spectaculum est digestum; ordine chaos intelligibile discussum metaphysicum mundum ab aeterno distrinxit, distinctumque praebuit; ordine chaos imaginabile in mundum tertium, utriusque mundi praecedentis simulacrum, promovemus. Hic est contra casum temeritatemque continuus reclamator.27

Qui Bruno ci dice che, nel mondo intelligibile, il chaos è imbrigliato ab aeterno. Ma negli altri piani dell’essere, dove la creatività vitale si esprime come vicissitudine, pluralità e opposizione, la forza dirompente del chaos dev’essere costantemente argi­nata. Ciò che trasforma il chaos in un mondo è la voce possente del principio ordinato­re («Ordo») che continuamente si leva contro il caso e la fatalità. La voce ordinante separa, distingue, indirizza; e così facendo pone argine alla tracotanza e alla disaggre­gazione, che fatalmente crescono laddove gli enti si fanno più opachi e insensibili alla luce divina.

In apertura del Canto, una voce maestosa – quella di Circe – reclama contro la forza lacerante e inestinguibile del chaos nel mondo naturale. Si rivolge al Sole per doman­dare quale sia il modus28 (limite, misura, regola) delle cose: «Quis quæso rerum modus est?». Ma – questo è il punto – Circe stessa è intimamente connessa al chaos. La «dea terribile dalla voce umana» (deinè theòs audéessa; Od. X, 136) ha le caratteristiche di una divinità arcaica e preolimpica: ha imparato a modulare il suo canto con voce umana, ma nelle sue armonie si avverte l’eco dei suoni primordiali che squassavano il mondo prima dell'intervento ordinatore di Zeus. Circe agisce come una forza ordinante perché dimora nel punto mediano fra chaos e ordine, fra oscurità e luce. Una forza che psospendere e ristabilire le leggi naturali, che può addirittura snodare il legame che congiunge l’anima al suo corpo: nel miscuglio (kykeōn) fatto di miele verde, vino di Pramno, cacio e farina d’orzo, ella scioglie «farmachi rovinosi» (pharmaka lygra) che rendono gli uomini di Ulisse immemori di Itaca e del ritorno; dapprima infonde l’oblio nelle loro menti e subito dopo, percuotendoli con la verga (rhabdos), li rinchiude nei porcili. La lunga permanenza di Ulisse nell’isola Eèa ci parla anche di oblio e di memoria, di abisso e di salvezza.


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1«Quis quæso rerum modus est? Ecce sub humano cortice ferinos animos. Convenit ne hominis corpus ut cæcum atque fallax habitaculum bestialem animam incolere? Ubi sunt iura rerum? ubi fas, nefásque naturæ? Si repetivit Astræa cælum, cuius ne vestigium quidem terra videat: cur non de cælo saltem apparet Astræa? Ecce subivimus minime occultum Chaos. Cur non miscentur ignibus maria, et limpida nigris terris astra: si in terris ipsis et earum gubernaculis nihil est quod faciem demonstret suam? Ipsa ne nos mater natura decipit? Matrem dixerim an novercam? [...] Cur ergo similem debuimus in ipsa natura ypocrisim experiri? Si perpauci hominum animi sunt effincti, cur quæso tot hominum sunt efformata corpora? Convertere igitur ad partes tuas ô Sol, et tantum naturæ et dignitatis tuae præiudicium vindicato. Insignito Circem tuam tu cæterique præpotentes dii, ut eidem potentia qua ministerialibus spiritibus proximisque corporum istorum formatoribus imperare valeat.» Cantus Circaeus ad eam memoriae praxim ordinatus quam ipse iudiciariam appellat, in Iordani Bruni Nolani, Opera latine conscripta, publicis sumptibus edita, recensebat F. Fiorentino [F. Tocco, H. Vitelli, V. Imbriani, C.M. Tallarigo], 3 voll., in 8 parti, Neapoli [Florentiae], 1879-91 [= Op.lat.], vol. II, pars I, pp. 186-187. (Per la traduzione italiana, rinviamo al volume curato e annotato da N. Tirinnanzi, G. Bruno, Le ombre delle idee, Il canto di Circe, Il sigillo dei sigilli, Milano, 1997).
2«Moeri, explica membranam in qua sunt potentissimæ notæ, quarum mortales omnes latent misteria. Hæc sunt quibus ipsas credimus nos posse mutare naturæ leges: cur non per ipsas licebit easdem impie prophanatas instaurare?» (Ivi, p. 193).
3Ivi, p. 211.
4Ivi, pp. 47-48 [trad. nostra]. («Unum est quod omnia definit. Unus est pulchritudinis splendor in omnibus. Unus e multitudine specierum fulgor emicat. Quod si coniicias: tale inter oculos tuos et universaliter visibilia interpones oculare, ut nil sit quod te fugere possit omnino.»)
5Ivi, p. 186: «Adesto sacris filiæ tuæ Circes votis. Si intento, castóque tibi adsum animo, si dignis pro facultate ritibus me præsento. En tibi faciles aras struximus. Adsunt tua tibi redolentia thura, sandalorúmque rubentium fumus. En tertio susurravi barbara et arcana carmina. Peractæ sunt lustrationes. Septem suffituum genera pro septem mundi principibus expedivimus. Solutiones et ligamenta de more sunt peracta. Sygillavimus omnia. Unum abest ut præcationum quæ præcurrere debuerunt, quæque ad suos repetitæ sunt numeros concupita proferamus. Moeri inspice lineam, et vide an adhuc altum cæli sol teneat.» Bruno esibisce qui una conoscenza dettagliatissima del De occulta philosòphia di Cornelio Agrippa di Nettesheim e del De Vita di Marsilio Ficino.
6Una delle denunzie presentate dal Mocenigo all’Inquisizione di Venezia chiama in causa il Cantus Circaeus, insinuando che Bruno aveva «havuto intentione di parlare di tutte le dignità ecclesiastiche, e che per la figura del porco haveva voluto intendere il Pontefice». Cfr. L. Firpo, Il processo di G. Bruno, Roma, 1993, p. 71.
7«Natura est sempiterna et individua essentia […] per insitam sibi sapientiam agens». «Ipsa est ars vivens et quaedam intellectualis animae potestas, non alienam sed propriam, non extrinsecus sed intrinsecus, non electione tali, sed essentia tali, materiam perpetuo figurans: utpote son sicut statuarius externe, cum discursu, et instrumento operatur, sed perinde ut Geometra, dum vehementer quodam affectu figuras imaginatur, spiritum eius intimum imaginatione movet atque figurat». Acrotismus Camoeracensis, in Op.lat., vol. I, pars. I, p. 80.
8G. Bruno, Epistola proemiale, premessa a De l’infinito, universo e mondi, in Opere italiane, con testi critici di G. Aquilecchia, coordinamento di N. Ordine, Torino, Utet, 2002 [d’ora in avanti Op.it.], vol. II, pp. 9-10; Anche nella Cena de le ceneri, Bruno biasima quanti «vissero morti […] ne gli anni proprii» (Op.it., vol. I, p. 460).
9Le complesse vicende e le comiche oscenità in cui sono coinvolti i tre protagonisti del Candelaio (il pedante Mamfurio, il vecchio Bonifacio, l’alchimista Bartolomeo) adombrano i temi del chaos, della stoltezza del mondo, della vanitas, del dissidio insanabile fra essere e apparire.
10Sui temi della crisi universale e della pedanteria, cfr. M. Ciliberto, L'occhio di Atteone: nuovi studi su G. Bruno, Roma, 2002, in part. pp. 26-27.
11Platone, Simposio, 215 A-B; 216 D.
12G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Op.it., vol II, pp. 173-174.
13Erasmo da Rotterdam, Adagi, con testo latino a fronte, a cura di E. Lelli, Milano, 2013, p. 1742-43. («Apri il Sileno e troverai un maiale, un leone, un orso o forse un asino. Ne risulta uno spettacolo assai diverso da quello che i poeti attribuiscono agl’incantesimi di Circe. I suoi avevano un aspetto di bestie ma nella mente erano uomini; qui sotto l’aspetto umano si nascondono delle bestie.»)
14«[Aristotele] studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più incaminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della verità, che è occolta nella sustanza di quelle et è la sustanza medesima loro». Eroici Furori, in Op.it., p. 686.
15Odissea, libro X, vv. 133 e sgg.; cfr. anche libro XII.
16Aen. 7, 10-24.
17Cfr. I. Berti, Le metamorfosi di Circe: dea, maga e femme fatale, «Status Quaestionis. Rivista di Studi Letterari, Linguistici e Interdisciplinari», vol. VIII, anno 2015, pp. 122-123.
18Cfr. E. Hatzantonis, Il potere metamorfico di Circe quale motivo satirico in Machiavelli, Gelli e Bruno, «Italica», vol. 37, num. 4 (dic. 1960), pp. 257-267.
19Così Bruno riassume la vicenda dinanzi agli Inquisitori veneti: «acquistai nome tale che il re Henrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che havevo et che professava era naturale o pur per arte magica. Al qual diedi sodisfattione; et con quello che li dissi et feci provare a lui medesmo, conobbe che non era per arte magica ma per scientia. Et doppo questo feci stampar un libro de memoria, sotto titolo De umbris idearum, il qual dedicai a Sua Maestà; et con questa occasione mi fece lettor straordinario et provisionato». G. Bruno. Un’autobiografia, a cura di M. Ciliberto, Napoli, 1994, p. 49.
20Il nesso etimologico mente-misura viene esplicitamente richiamato da Bruno nel Sigillus sigillorum: «mens, a qua denominatur apud nos mensura» (Op.lat., Vol. II, pars II, p. 215). La correlazione fra mente, numero e misura è espressa con mirabile efficacia nel poema filosofico francofortese De triplici minimo et mensura: «Mens super omnia Deus est. Mens insita omnibus natura. Mens omnia pervadens ratio. Deus dictat et ordinat. Natura exequitur atque facit. Ratio contemplatur et discurrit. Deus est monas omnium numerorum fons, simplicitas omnis magnitudinis et compositionis substantia, et excellentia super omne momentum, innumerabile, immensum. Natura est numerus numerabilis, magnitudo mensurabilis, momentum attingibile. Ratio est numerus numerans, magnitudo mensurans, momentum aestimans.» (Op.lat., vol. I, pars III, p. 136).
21Traduzione italiana desunta da N. Tirinnanzi (a c. di), G. Bruno, Le ombre cit., pag. 70 (vedi Op.lat., vol. II, pars I, pag. 27). Per l’idea del mondo come grande animale, cfr. Platone, Timeo, 30d-31c.
22Il titolo dell’opera da cui ricaviamo la citazione merita di essere considerato nella sua interezza: «Esposizione dei trenta sigilli, per l’invenzione, la disposizione e la memoria di ogni scienza e disciplina. Ai quali è aggiunto il Sigillo dei sigilli, che porta con successo a organizzare tutte le operazioni dell’animo e a trattenerne i significati. E non a torto si definisce arte delle arti: qui infatti troverai con facilità quanto viene cercato per via teorica attraverso la logica, la metafisica, la cabala, la magia naturale, le arti magne e brevi». Per la traduzione italiana, facciamo qui riferimento a G. Bruno, Esposizione dei trenta sigilli, in Opere mnemotecniche, a cura di M. Matteoli, R. Sturlese, N. Tirinnanzi, edizione diretta da M. Ciliberto, tomo II, Milano, 2009.
23Cfr. P. Rossi, Studi sul lullismo e sull’arte della memoria nel Rinascimento: i teatri del mondo e il lullismo di Giordano Bruno, «Rivista Critica di Storia della Filosofia», vol. 14, num. 1, anno 1959, pp. 28-59.
24Op.it., pp. 515-516.
25Ivi, pp. 557-558..
26Ivi, p. 739.
27Sigillus sigillorum, in Op.lat., Vol. II, pars II, p. 216. Sottolineatura nostra. («Con l’ordine il chaos fisico viene composto nel bello spettacolo del mondo; con l’ordine il disperso chaos intelligibile dall’eternità delimitò in sé il mondo intelligibile, e lo presentò come distinto; con l’ordine indirizziamo il chaos immaginabile a formare un terzo mondo, simulacro di entrambi i precedenti. È questo ordine che continuamente grida smentendo il caso e la fatalità.») La traduzione italiana è desunta da N. Tirinnanzi (a c. di), G. Bruno, Le ombre cit., pag.
28Non possiamo qui approfondire le profonde significazioni teologiche e filosofiche del termine “modus”. Ci limitiamo a suggerire alcuni spunti. Nel diritto romano “modus” indica la “misura”, in quanto limite imposto all’esercizio di un diritto. Per Agostino (De beata vita, 4, 34), Dio padre è il «summus Modus», ossia la «Misura somma»; mentre il Figlio è la Sapienza che si genera nel Modus e lo rende conoscibile. Le concezioni agostiniane rivelano profonde assonanze con la dottrina platonica secondo cui «Dio è per noi la misura [metron] suprema di tutte le cose» (Leggi, IV 716 C). Il dio platonico include in sé il Bene e il Bello, ossia un principio d’ordine e di proporzione. E il filosofo, armonizzando le parti della sua anima, ha il compito di riprodurre in sé stesso proporzione e misura (Resp., IV 443 C-E). In ambito cristiano, la concezione pitagorico-platonica (si pensi anche al Timeo, che il Medioevo conosceva) di misura nel senso ontologico di principio di unità e forma sembrava trovare fondamento nel testo biblico di Sap, 11, 20: «Sed omnia in mensura et numero et pondere disposuisti» (Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso). La concezione della struttura matematica del cosmo era ampiamente illustrata nei testi di Agostino e Boezio dedicati alla musica. Infine, mette conto ricordare che la triade sapienziale mensura, numerus, pondus è strettamente connessa – nella riflessione teologica medievale – a una seconda triade: modus, species (bellezza in quanto armonia delle parti) e ordo. Su questi temi, cfr. U. Eco, Scritti sul pensiero medievale, Milano 2012, in part. cap. 3.1 La visione estetica dell’universo»); Tina Manferdini, Comunicazione ed estetica in Agostino, Bologna, 1995, pp. 213-214; L.F. Pizzolato, Il modus nel primo Agostino, in La langue latine, langue de la philosophie. Actes du colloque de Rome (17-19 mai 1990), École Française de Rome, Rome 1992, pp. 245-261.