1.
Premessa
L’opera
intitolata Cantus Circaeus, pubblicata da Giordano Bruno a
Parigi nel 1582, richiede al lettore di farsi parte attiva nella
ricerca dei collegamenti interni, dei sensi riposti,
delle cifre interpretative intorno a cui costruire una lettura
compiuta e coerente. Per il suo ricco apparato simbolico, per la
dichiarata volontà dell’autore di lasciare nell’ombra il nucleo
vivo, filosofico e pregnante del suo discorso, questo lavoro dedicato
al conoscere memorativo si offre come un testo “aperto” e
plurivoco, suscettibile di interpretazioni molteplici. Del resto,
basta ripercorrere sommariamente le vicende della
sua ricezione per
rendersi conto di quali svisamenti,
condanne e perplessità il Canto di Circe abbia
suscitato, al punto da rendere assai controversa la sua collocazione:
per taluni era opera dedicata alla magia ermetica, per altri una
satira irriverente del papa e della corruzione ecclesiastica, per
altri ancora una prassi della memoria di difficile applicazione.
Esteriormente
l’opera si presenta come una giustapposizione di due dialoghi: il
primo (che chiameremo per brevità Canto) descrive la magica
metamorfosi operata da Circe per ristabilire le leggi di natura
e per rinnovare il vincolo di verità fra
apparenza ed essenza; il secondo contiene il metodo per applicare
l’arte della memoria al Canto. E proprio nelle battute
iniziali di questo secondo dialogo, Giordano Bruno si rivolge per via
mediata al lettore, dando indicazioni su come questo libro dal
carattere duplice (di un «duplex de cantu Circaeo et eius ad memoriæ
Artem applicatione dialogus» parla la lettera dedicatoria) possa
essere inteso. L’allievo Alberico osserva infatti che la lettura,
appena conclusa, dell’incantesimo circeo ha purtroppo consumato la
maggior parte del tempo assegnato allo studio dell’arte memorativa;
per questo motivo, egli vorrebbe senz’altro rinunziare alla fatica
d’intendere i sensi allegorici celati nelle profondità del Canto,
per imprimere invece nella mente – utilizzando le mirabili
strategie mnemoniche insegnate da Giordano – la molteplicità di
eventi che costituisce la forma esteriore del dialogo. Il maestro
Borista ben volentieri lo asseconda, proponendo di leggere e
commentare un’esposizione applicativa dell’Arte, concepita per
quegli
studiosi che trovano oscuro e
inaccessibile l’insegnamento
mnemotecnico che Giordano ha affidato al libro Sulle ombre delle
idee. Esiste, insomma, un agile manuale che rende
accessibile a tutti la nuova ed efficacissima prassi del giudizio e
della memoria. Queste parole di Bruno-Borista ci trasmettono
indicazioni che meritano attenta valutazione. In primo
luogo, testimoniano il bisogno di far fronte alle critiche
degli allievi parigini che, desiderosi di ottenere rapidamente i
vantaggi promessi dall’arte della memoria, giudicano astratte e
criptiche le spiegazioni filosofiche di Bruno – quegli stessi
allievi che avevano alterato e imbrattato («vitiata et
conspurcata») le copie manoscritte del Canto fatte
circolare da Bruno. In secondo luogo, le parole del maestro Borista
suggeriscono all’avveduto lettore di adoperarsi per scoprire
ulteriori strutture e livelli di significato.
Il punto di
partenza di questo nostro lavoro dedicato
al Cantus Circaeus
è la convinzione che in questo duplice dialogo (insieme
filosofico e mnemotecnico) Circe stessa – la figlia del Sole che
invoca le divinità planetarie e poi innalza «carmi barbari e
arcani», per arginare il chaos distruttore di ogni modus,
ogni limite, ogni connexio – agisca come una icastica figura
della memoria bruniana, in cui sono contratte ed esemplate
luminose intuizioni filosofiche. In questa prospettiva, è possibile
leggere il Cantus Circaeus come una composizione unitaria, in
cui si intrecciano in forma di contrappunto la voce numinosa di Circe
e le voci di Borista e Alberico, i cultori di un sapere innovativo ed
effettuale, il cui esito eminente è lo straordinario potenziamento
della memoria. Emergono così profonde connessioni fra la magia
ordinatrice di Circe e la «nova filosofia» di Bruno, espressione di
un uomo formatore e costruttore di civiltà, in lotta contro le
potenze disgregatrici del tempo (il caos delle guerre di religione,
la violenza dilagante, il sapere sterile dei pedanti). Come Circe,
levando il suo sguardo all’unico Sole, ristabilisce coerenza e
unità nel mondo, così il filosofo distoglie il suo occhio dalla
superficie cangiante dei fenomeni, per cogliere l’unità essenziale
che sta al fondo di ogni pluralità.
Procedendo per
rapidissimi cenni, ci limitiamo qui a segnalare come Bruno, per
illustrare la sua arte memorativa, ricorra a una figura del mito
ricca di significazioni e ben nota ai suoi contemporanei (la Signora
delle fiere, Circe esperta d’inganni e di pozioni, la seduttrice,
la tessitrice dal canto soave), trasfigurandola e arricchendola di
profonde valenze filosofiche. Nel Canto, Circe ha il compito
di rappresentare in figura la natura intesa come «grande maga»,
come materia che tutto genera e dissolve e – a nostro avviso –
come forza che tiene insieme il
mondo e ne impedisce la
disgregazione, levando alta la sua voce contro il chaos.
Il cultore della
memoria deve dispiegare una simile capacità ordinatrice, imparando
in primo luogo a vedere oltre l’apparenza. Il Cantus Circaeus
è interamente costruito sul tema dello sguardo e del suo continuo
rovesciamento: dalla corteccia al midollo, dalla superficie
all’essenza, dai molti all’Uno, dal chaos irrelato
all’ordine implicito. Ma per poter guardare il mondo con occhi
nuovi, l’artefice della memoria deve produrre una metamorfosi nella
sua stessa interiorità: dapprima riconoscendo lo stato di torpore e
passività che affligge la sua mente, sedotta da innumerevoli
impressioni sensibili e da proteiformi immagini fantastiche; poi
costruendo in sé stesso un principio egemonico e ordinatore, un Sole
irraggiante che connetta tutto con tutto. Come i compagni d’Ulisse
vittime dell’incanto circeo, l’amante del vero e del bene deve
riconquistare la sua umanità.
Soltanto
in anni recenti, grazie al
lavoro critico
ed esegetico di
Michele
Ciliberto
e degli studiosi che lo affiancano, le
opere mnemotecniche di Bruno hanno
suscitato
l’interesse
che meritano. In particolare, nel
nostro tentativo di intendere la figura di Circe e l’arte
della memoria,
abbiamo ricavato illuminanti
suggestioni
dalle
ricerche di Nicoletta Tirinnanzi, S.
Bassi; dal saggio curato da M.
Matteoli e
R.
Sturlese, Il
Canto
di Circe
e la ‘magia’ della nuova
arte della memoria del Bruno
(come
opportunamente evidenziato
nelle
note bibliografiche).
Rimane
a nostro avviso fondamentale, per
comprendere
il
significato
di
Diana e di
Circe
nella filosofia nolana,
l’opera
di I.P.
Couliano, Eros
et magie à la Renaissance.
Da ultimo, un
accenno al latino utilizzato da Bruno. Dissentendo da quanto hanno
affermato in passato alcuni studiosi, riteniamo che la prosa latina
di Bruno sia straordinariamente viva ed estrosa, davvero
efficace nell’evocare il prodigio circeo. Una lingua personale e
libera, ricca di dissonanze, lontana dal formalismo dei pedanti.
2.
L’Uno e i molti
Che ne è della giusta misura assegnata
alle cose? e dove sta, in natura, il limite che separa il lecito
dall’illecito1?
Queste sono le domande che Circe, dea e figlia del Sole, pone nel
primo dei due dialoghi che compongono il Cantus Circaeus,
un trattato davvero singolare – per intreccio di temi e per
sviluppo – pubblicato da Giordano Bruno a Parigi nel 1582, e
dedicato all’illustrazione della sua arte memorativa.
Rivolgendosi al Sole, espressione
visibile del principio unitario che governa l’immensa varietà
delle cose, Circe lamenta il disordine universale: la realtà è
sovvertita da un profondo dissidio, è messa sottosopra da un chaos
lacerante ed evidentissimo (minime occultum chaos), al punto
che nulla è come dovrebbe essere e nulla si mostra per ciò che
veramente è. Nell’età della decadenza e dell'anomia, ogni
accadimento si inscrive nella logica dell’ipocrisia, della
dismisura. Ecco allora che ogni segno esteriore contraddice
l’interiorità: persino i corpi umani sono degradati a ciechi
involucri attraverso cui schiere
di anime bestiali, che
indegnamente se ne appropriano, diffondono iniquità e menzogna.
Nella folla innumerevole degli esseri dal volto umano, vi sono oramai
pochissimi veri uomini.
Qui il lamento di Circe fa immediatamente
pensare alle guerre civili di religione, alle sanguinose
lacerazioni, alle inaudite violenze che sconvolgono l’Europa nel
secondo Cinquecento. Se
la vergine Astrea ha definitivamente
abbandonato la dimora degli
uomini, se non vi è Giustizia né
misura («modus»)
nel mondo e in chi lo governa, c’è da chiedersi per quale motivo i
mari non si mescolino ai fuochi e gli astri lucenti non precipitino
nelle terre nere. Invocando l’intervento risolutore del Sole –
l’Apollo splendente, il fondamento della concordia universale,
l’occhio del mondo – Circe riformula la sua domanda: perché
madre natura ci fa patire una simile ipocrisia? Se un numero davvero
esiguo di anime razionali è stato plasmato, perché gli spiriti
ministeriali continuano a forgiare in soprannumero corpi che
hanno un sembiante umano? Un’empia ribellione, un processo di
dissoluzione, una rottura dei sigilli, un indebolirsi delle leggi che
secondo giustizia (iura rerum) dovrebbero governare le cose:
da tutto ciò scaturisce la barbarie che avvelena il consorzio
umano e con esso tutto il mondo naturale. Ebbene, prosegue Circe, il
Sole stesso vendichi tali atti di lesa maestà, permettendo alla
propria figlia di ricondurre il mondo nei giusti confini e di
restituire un aspetto bestiale ai corpi che nascondono anime
irrazionali.
Per
Circe,
infatti, esiste
un’unica via d’uscita: il
nesso di verità fra esteriorità e natura profonda, fra parte
e tutto,
fra parola
e cosa dev’essere
riaffermato;
per questo motivo la «dea
terribile dalla voce umana»
(così la dipinge Omero)
dispiega la virtù magica
con cui
è capace di sospendere e, all’occasione, di ristabilire le leggi
di natura.2
Questo
primo dialogo del Cantus
raffigura, con la forza di
immagini vivide e di
parole incisive, la
prodigiosa metamorfosi operata
da Circe per capovolgere l’apparenza
e restaurare la
connessione profonda di tutte le cose.
Qui l’omerica «dea trecce
belle» esercita
le sue prerogative di figlia
del Sole, agendo come una
forza che trattiene il mondo nei suoi cardini e ne impedisce lo
sfaldamento, come l’«occolta
armonica raggione» che
rinsalda
la trama invisibile e
l’armonia universali.
Con queste ultime considerazioni, ci
siamo già incamminati nella ricerca dei significati figurali (dei
sensi allegorici) di cui parlano Borista e Alberico, gli
interlocutori del dialogo secondo del Cantus, in cui si
applicano i precetti dell’ars memoriae. Per ammissione dello
stesso Bruno-Borista, il dialogo di Circe contiene molti significati
espliciti, impressi nella corteccia o superficie delle parole (multos
in ipso verborum cortice sensus explicitos); ma anche
innumerevoli sensi riposti, occultati e incisi nel midollo o profonda
essenzialità (intentiones quoque medullitus implicitas innumeras)
e non certo facili da cogliere (nec facile intelliges3
– mette in guardia Borista). Il grande affresco in cui
appare la statuaria figura di Circe, la signora di Aiaie, può essere
utilizzato come un testo denso di immagini e suggestioni, congegnato
sapientemente per l’applicazione delle strategie di memoria
insegnate da Bruno. Ma c’è molto di più. Bruno ci invita a
leggere il Cantus sovrapponendo il primo e il secondo dialogo,
intrecciando, come in un contrappunto di voci, varie linee e
profondità di significato. E allora la voce stentorea
di Circe si sovrappone a quella del cultore o artefice della memoria
che si misura con il phantasticum chaos, con l’infinito
potere generativo dell’immaginazione umana, con il compito di
cogliere la vivente unità al di sotto della luccicante apparenza
delle cose.
Nel De umbris idearum (opera coeva
al Cantus e dunque apparsa nel medesimo 1582 a Parigi, assieme
alla commedia Candelaio e al De architectura et complemento
artis Lullii), Giordano Bruno individua proprio
nella capacità di intravedere e contrarre nella propria mente la
connessione invisibile di tutte le cose, strutturata per gradi e
gerarchie, la pietra angolare di una superiore conoscenza:
Uno è ciò che
tutto definisce. Unico è lo splendore della bellezza in tutte le
cose. Un solo fulgore risplende nella varietà delle specie. E se lo
terrai a mente, metterai un oculare
così potente fra
i tuoi occhi e le cose universalmente visibili, che nulla
ti potrà sfuggire.4
L’occhio
sensibile coglie la superficie caotica della realtà, dove
ogni cosa appare come irrelata e dislogata; ma l’occhio della mente
è provvisto di un potentissimo oculare che evidenzia sinotticamente
ciò che sta nel grembo stesso della realtà. Riteniamo
che proprio questa visione sinottica, capace di cogliere il mondo
come multicolore unità, sia la condizione aurorale, primaria e
fondativa, della gnoseologia nolana. E tale via conoscitiva percorre
una scala ascensiva che conduce da ciò che è imperfetto e
frammentario a ciò che è più ricco d’essere e di relazioni, ab
imperfectis ad perfecta.
Al di sotto del chaos apparente,
un unico e medesimo principio vitale informa il mondo fisico e il
pensiero umano. Anticipando quanto cercheremo di argomentare nelle
prossime pagine, sottolineiamo qui che nel Cantus la superiore
capacità di memoria appare come l’esito di un nuovo metodo
conoscitivo che – imitando la natura e la magia del vincolo solare
di Circe – crea nel mondo logico architetture e simmetrie, governa
il chaos delle percezioni sensibili e delle rappresentazioni,
instancabilmente riconduce la multiforme e frammentaria varietà
degli enti logici al loro principio unitario. Il conoscere
memorativo di Giordano Bruno si configura come un sapere
architettonico, cioè un’arte delle arti, una logica
inventiva-combinatoria-ordinativa che consente di esaminare e
perfezionare i principi di tutte i saperi particolari.
La memoria ben ordinata diventa a sua
volta il supporto e la «discursiva architectura» in cui si
innestano ulteriori conoscenze. Il supporto e i dati che in esso
incessantemente si imprimono si influenzano a vicenda. Ogni
parte dialoga con il tutto e, come in uno specchio vivente, illumina
significati sempre nuovi. La conoscenza memorativa di Bruno non è
pertanto una semplice mnemotecnica, ossia un insieme ben congegnato
di artifizi capaci di rafforzare la naturale disposizione al ricordo;
è per contro un’arte del giudizio e della connessione, che
consente, da un lato, di smascherare le false credenze e, dall’altro,
di edificare un sapere innovativo.
3.
La corteccia e il midollo
Ma torniamo alla «saga», lungimirante,
preveggente Circe che col suo canto demolisce ogni ipocrisia.
Assistita dall’ancella Moeris, Circe invoca le sette divinità
planetarie e compie
con diligenza gli atti magico-cerimoniali («carmi barbari e arcani», suffumigi e purificazioni, vincoli e dissoluzioni, lamine incise, sigilli, note5), affinché in lei si contragga il potere d’imperio sulle forze naturali. In conclusione, svolto un rotolo di pergamena in cui sono impressi taluni simboli pregni di un’oscura e formidabile potenza, il cui mistero rimane ignoto ai mortali, l’incanto sortisce il suo portentoso effetto. Sotto gli occhi della Maga e della sua assistente, una massa scomposta di bestie si muove con rapidità, per trovare rifugio nello spazio vitale che gli compete: alcuni animali si gettano a precipizio nel mare, altri volano verso i rami robusti degli alberi oppure si insinuano in oscure caverne; le bestie d’indole più domestica si appressano al palazzo circeo. Pochi e sbigottiti, i veri uomini non sono toccati dall’incantesimo; mantengono inalterato il loro aspetto e corrono tremanti a cercare un nascondiglio. Moeris si sente minacciata da quelle belve terribili, la cui capacità di offendere è ora manifestata da artigli mortiferi, da unghie, denti, aculei, corna. Ma Circe benigna la invita a liberare l’animo da paure e indugi, perché è opportuno esaminare più dappresso quegli animali. La pavidità di Moeris, peraltro, è frutto di poco giudizio: Circe le fa notare che, per quanto terrificanti, quegli esseri sono ora meno offensivi di quando agivano sotto mentite sembianze umane, servendosi della lingua tagliente e soprattutto della mano, l’organo che con versatile precisione può valersi di qualsiasi arma.
con diligenza gli atti magico-cerimoniali («carmi barbari e arcani», suffumigi e purificazioni, vincoli e dissoluzioni, lamine incise, sigilli, note5), affinché in lei si contragga il potere d’imperio sulle forze naturali. In conclusione, svolto un rotolo di pergamena in cui sono impressi taluni simboli pregni di un’oscura e formidabile potenza, il cui mistero rimane ignoto ai mortali, l’incanto sortisce il suo portentoso effetto. Sotto gli occhi della Maga e della sua assistente, una massa scomposta di bestie si muove con rapidità, per trovare rifugio nello spazio vitale che gli compete: alcuni animali si gettano a precipizio nel mare, altri volano verso i rami robusti degli alberi oppure si insinuano in oscure caverne; le bestie d’indole più domestica si appressano al palazzo circeo. Pochi e sbigottiti, i veri uomini non sono toccati dall’incantesimo; mantengono inalterato il loro aspetto e corrono tremanti a cercare un nascondiglio. Moeris si sente minacciata da quelle belve terribili, la cui capacità di offendere è ora manifestata da artigli mortiferi, da unghie, denti, aculei, corna. Ma Circe benigna la invita a liberare l’animo da paure e indugi, perché è opportuno esaminare più dappresso quegli animali. La pavidità di Moeris, peraltro, è frutto di poco giudizio: Circe le fa notare che, per quanto terrificanti, quegli esseri sono ora meno offensivi di quando agivano sotto mentite sembianze umane, servendosi della lingua tagliente e soprattutto della mano, l’organo che con versatile precisione può valersi di qualsiasi arma.
Avventurandosi nei territori che
circondano il loro palazzo, maestra e allieva incontrano una
grande varietà di animali e ne esaminano le caratteristiche fisiche
e il comportamento, con l’intento di risalire ai tipi umani
corrispondenti. L’animale che per primo si offre alla loro vista è
il porco, facilmente riconoscibile anche quando si cela sotto un
uomo.6
E qui la maga presenta una ruota mnemonica di matrice lulliana, al
cui interno vi sono lettere dell’alfabeto associate agli epiteti
propri della natura porcina: A. avaro; B. barbaro; C. coperto di
fango; D. duro; E. errante; F. fetido, G. goloso ecc. Qui Circe vuole
ricordarci che il discorso gnomico e satirico ha valenze anche sul
piano gnoseologico: l’artista o artiere della memoria dovrà
allo stesso modo affinare la propria capacità di giudizio, per
cogliere l’essenza nascosta che dà senso al molteplice e lo rende
conoscibile, per connettere produttivamente l’esteriorità e
l’interiorità (gli indizi e l’idea). D’altronde la memoria, in
quanto arte, non è costituita da emblemi unificanti (le forme) che
vengono inscritti negli spazi interiori ben ordinati (la materia)?
Anche la memoria – come il grande affresco del Canto
dominato dalla possente statua di Circe – svolge un discorso
attraverso immagini unificanti, pregnanti, icastiche, evocative,
allusive.
Prosegue l’irridente e corrosiva
indagine: «In quale modo», domanda Moeris, «avrei
potuto
riconoscere sotto la figura umana codesta razza codarda di cani?» Si
tratta di quella razza di barbari che condanna e aggredisce tutto ciò
che non comprende, cioè – fuor di metafora – gli individui che
difendono ostinatamente il sapere tradizionale e combattono
aspramente ogni novità, per quanto benefica. Si avvicendano poi i
muli, ovvero i figli di una madre giumenta e di un asino, condannati
a mescolare il raglio al nitrito: i falsi filosofi, i vaniloquenti, i
millantatori. E poi ancora:
capri, scimmie, iene,
cervi, elefanti e molti
altri animali. Degni
d’interesse i cammelli,
che
non traggono alcun
diletto dalle cose pure e
perciò si
abbeverano solo dopo aver
calpestato e
intorbidato con gli
zoccoli il fondo della sorgente; così
sono gli uomini che
inquinano le
pure fonti del conoscere (sapientum
monimenta) con
sordidi
commenti
e glosse
puerili.
E noi possiamo
immaginare che in groppa al cammello siedano i pedanti.
Per Bruno, la pedanteria è
l’atteggiamento di chi nega
la filosofia e ogni autentico progresso umano. A
questa schiera appartengono di
diritto gli esangui
commentatori di Aristotele; i
professori insipienti e
servili arroccati
nelle università; i
grammatici presuntuosi; e
non da ultimo
quei teologi che, del
tutto incapaci di prestare
orecchio allo spirito
vivente,
si affaticano
sulla lettera dei sacri
testi,
fornendo argomentazioni
alle dispute, agli
scismi e
ai conflitti armati.
Nella
visione di Bruno, la «pedantaria» è un’espressione
emblematica di un’età
di vecchiaia e
corruzione
universali
in cui le parole sono
private del loro potenziale di verità, al
punto che si
attribuisce il nome di “filosofia” al vano
strologare
o alle
dispute terminologiche.
Insomma, i
pedanti, prigionieri di
una cultura votata
all’autoritarismo
e all’irrigidimento
dogmatico, sono i più
fieri avversari della vita
filosofica,
che è in
essenza un cammino di
libertà.
A
tutto ciò Bruno contrappone una
prassi filosofica
radicalmente alternativa:
in
quanto imitatrice della natura, la
«musa
nolana»
genera
senza
posa
nuove
forme linguistiche
e
concettuali;
tende
alla
differenziazione, alla crescente complessità, alla sovversione
di alto e basso; celebra
l’universale
vicissitudine; abbatte
le gerarchie; dissolve le illusioni dell’antropocentrismo.
La
matrice
di questa “nova
filosofia”
– la
Natura
– è
per
Bruno una
grande maga, è arte vivente, è dedalea
(cioè
ingegnosa
e
ricca di risorse),
è
artefice del
vincolo
che
annoda
in
trame
invisibili
l’infinità
varietà degli elementi,
agisce
in virtù di una sapienza che
dimora
nel
suo grembo
(per insitam
sibi sapientia agens)7
– insomma,
una
Natura
che rassomiglia
alla
nostra
Circe, alla
divina
tessitrice che
incanta e governa gli elementi.
Se
Natura
è fonte
e sostanza
delle
arti, cioè
di ogni forma di produttività,
la
«nolana filosofia» la asseconda, rivelandosi perciò
massimamente vitale e
feconda.
E,
in questo quadro, qual è il compito
dell’uomo? Dobbiamo
in primo luogo notare che quella
medesima sapienza che,
discendendo
dal
principio
fontale,
eterno
e immutabile s’irradia
e rifrange
nel
mondo delle cose sensibili, si
esprime
nell’uomo
come impulso
generativo
capace
di
creare
manufatti,
scienze,
istituzioni
e civiltà.
Nel
De umbris
idearum,
infatti,
il
Nolano
descrive
la sua arte
(intesa a generare, a
ordinare e a memorizzare
le
conoscenze)
come
un’attitudine
dell’anima
raziocinante in
cui si esprime un
principio
sovrabbondante
di vita che
si effonde
in
ogni parte
dell’universo;
un
sole irraggiante che nell’uomo si
esplica
come
mano,
intelletto,
memoria, tensione
eroica
verso
l’infinito.
È
proprio
nello
spazio umbratile della natura, nel luogo della mescolanza di luce e
oscurità,
che l’uomo può cogliere gli indizi dell’Uno.
Persino
nella più vile
«minuzzaria», in
una pulce come nella più minuta parte dell’universo, è possibile
intravedere una traccia del meraviglioso
ordine implicato che fa
dell’universo un unico grande animale.
In
questa prospettiva, votarsi
alla pedanteria significa
separarsi
dalla natura;
significa rinunciare
a ciò
che è propriamente umano.
Ora si comprende meglio il
motivo per cui Bruno, «academico
di nulla academia»,
contrappone
la sua condizione
di libertà alla
condizione servile dei
suoi detrattori, negatori
della scienza e
morti alla vita:
son
libero in suggezione, contento in pena, ricco ne la necessitade e
vivo ne la morte; [...]
non invidio a quei che son servi nella libertà, han pena nei
piaceri, son poveri ne le ricchezze e morti ne la vita, perché nel
corpo han la catena che le stringe, nel spirto l'inferno che le
deprime, ne l'alma l'errore che le ammala, ne la mente
il letargo che le uccide; non essendo magnanimità che le
delibere, non longanimità che le inalze, non splendor che le
illustre, non scienza che le avvive.8
Abbiamo dedicato ampio spazio a un tema,
quello della pedanteria, che in un’opera “d’esordio” e
strettamente dedicata all’arte della memoria, quale è il Cantus
Circaeus, non è trattato esplicitamente: esso agisce tuttavia
come ispirazione e presupposto polemico. Circe e Moeris,
nell’esaminare i vari animali, smascherano le corrispondenti forme
di corruzione morale e di pedanteria. Il pedante, che Bruno
sbeffeggia già nel Candelaio9,
l’esuberante commedia coeva al Cantus, è del resto
una figura ricorrente nella letteratura rinascimentale; una figura
che tuttavia assumerà nella concezione bruniana connotazioni assai
originali, in quanto connessa all’idea di vecchiezza e consunzione
del mondo. La sensazione di vivere nel tempo del decadimento estremo
sembra agire come sfondo e presupposto della sua ansia di renovatio,
di necessario ringiovanimento del mondo10.
Altri spunti illuminanti si possono
ricavare dall’incanto circeo: fra questi, merita attenta
considerazione il motivo genuinamente socratico del “silenismo”.
I Sileni di Alcibiade sono descritti da Platone nel Simposio e
riproposti da Erasmo negli Adagia. Nel tessere l’elogio di
Socrate11,
Alcibiade, che si presenta già ubriaco al simposio in casa di
Agatone, lo paragona ai Sileni messi in mostra nelle botteghe degli
scultori, ossia a quelle statuette lignee che presentano all’esterno
la figura di un comico e sgraziato Sileno, ma, una volta aperte,
rivelano all’interno immagini degli dei. Il Socrate esteriore, con
i suoi occhi sporgenti, il naso camuso, le labbra grosse,
rassomiglia – aggiunge Alcibiade – anche al satiro Marsia.
Ma questa è l’apparenza, dietro cui si nasconde la sua anima. Allo
stesso modo, i discorsi di Socrate sono simili ai Sileni che si
aprono; appaiono esteriormente ridicoli e plebei come le parole e le
frasi di cui si rivestono: ci parlano infatti di asini da soma,
fabbri, calzolai, conciapelli. Insomma, par che dicano sempre le
solite quattro cose. Ma chi per caso li veda aperti e ne scorga le
profondità, troverà che essi soli hanno una mente e contenuti
divini e fini nobilissimi.
Ebbene, questo tema del capovolgimento,
della natura ancipite (letteralmente: “a due teste”) della verità
filosofica è un tratto essenziale della concezione nolana. Così si
esprime Bruno, nello Spaccio de la bestia trionfante,
pubblicato a londra nel 1584:
Cossì dumque lasciaremo la moltitudine
ridersi, scherzare, burlare e vagheggiarsi su la superficie de
mimici, comici et istrionici Sileni, sotto gli quali sta ricoperto,
ascoso e sicuro il tesoro della bontade e veritade; come per il
contrario, si trovano più che molti che, sotto il severo ciglio,
volto sommesso, prolissa barba e toga maestrale e grave,
studiosamente a danno universale conchiudeno l’ignoranza non men
vile che boriosa, e non manco perniciosa che celebrata ribaldaria.12
Una tematica, questa, che Bruno riprende
con accenti originali dai Sileni Alcibiadis di Erasmo da
Rotterdam e che certo si riverbera in modo assai articolato nel
Cantus Circaeus. Erasmo, dopo aver definito Cristo stesso un
meraviglioso Sileno, introduce l’immagine dei praeposteri
Sileni, i Sileni alla rovescia, cioè quegli individui che sotto
apparenze degne (i titoli di grandezza, il potere, la ricchezza, la
devozione religiosa, la pedantesca ostentazione del sapere)
nascondono un animo spregevole. Aprendo questi Sileni, si scopre che
una metamorfosi degradante e singolare è avvenuta nel loro intimo:
non vi è traccia di coscienza né dignità umane. Non era arrivata a
tanto la venefica Circe che, secondo quanto tramandano i poeti,
degradava e trasformava gli uomini nella loro natura esteriore, ma
non poteva togliere loro la ragione (mens):
Si silenum explicaveris intus suem aut
leonem aut ursum aut asinum fortassis invenies. Ac diversum quiddam
eveniet ei, quod de Circes veneficiis poetarum fabulis est proditum.
Apud hanc enim ferarum figuram habebant, mentem hominis; isti sub
humana specie plus quam belvam tegunt.13
Dischiudere-velare, aprire-occultare sono
i due movimenti che contraddistinguono il lavoro filosofico di Bruno:
lo sguardo silenico rende perspicua la verità che si cela nella
sostanza delle cose14;
l’ironia silenica riconsegna quella stessa verità al
nascondimento, avvolgendola nelle pieghe delle allusioni o della
parodia burlesca. L’ironia protegge una conoscenza che, come tale,
non può essere spiegata o rivelata a tutti. Al contrario di quel che
pensano i pedanti di ogni latitudine, la caccia della verità
presuppone un’interiore trasformazione: la si conquista per via
iniziatica, morendo a sé stessi e facendosi uno con l’oggetto del
proprio amore. E questo sarà messo a tema negli Eroici Furori,
pubblicati a Londra nel 1585.
4.
Natura dedalea
Per quali motivi Bruno affida proprio a
Circe il compito di porre rimedio alla discordia, all’inimicizia,
alla sconnessura del mondo? Per tentare una risposta, dobbiamo
sommariamente ricordare come Circe rappresenti un luogo
dell’immaginario assai frequentato dagli autori occidentali,
dall’antichità greca sino alla nostra contemporaneità (basti
qui pensare a d’Annunzio e a Joyce). Il mito della maga esperta
d’erbe e di inganni, che trasforma in porci i compagni di Odisseo,
sembra racchiudere i sé – contratto ed esemplato – un plesso di
significati che attraversa le epoche e si rivela strutturalmente
aperto alle riletture e alle variazioni. Un intreccio di temi che può
essere colto solo per immagini e in figura: il femminile e la
seduzione; la commistione di elementi solari e lunari; l’inganno
esercitato dal mondo sensibile; la duplice natura dell’uomo, che
può farsi bestia o rendersi simile a un dio; lo stato di torpore, di
oblio di sé, di stupore in cui vive l’uomo comune.
Tutto trae origine dal racconto omerico,
ove Circe Eèa è rappresentata come dea e sovrana luminosa, figlia
di Helios e dell’oceanina Perse, signora delle fiere, tessitrice
dal canto soave, ingannatrice e incantatrice, amante e poi
consigliera di Odisseo. Le sue istruzioni
consentiranno
a Odisseo di
affrontare
le prove
decisive
(le
sirene, Scilla,
la discesa nell’Ade).15
Una divinità femminile che ha caratteristiche chiaroscurali:
certamente rappresenta un pericolo formidabile e tuttavia dà un
apporto decisivo alla soluzione della vicenda, poiché accetta il suo
fato e non trattiene Odisseo nella sua isola; si rivela infine
generosa verso quegli uomini che aveva mutato in bestie.
A questa aurorale
e originaria ambivalenza di significati
(che pone la Signora
degli animali
e della metamorfosi
a metà
strada fra il mondo olimpio e il mondo ctonio, fra
la luce e la notte)
si sovrappongono le interpretazioni allegoriche di matrice
neoplatonica, che vedono nel suo potere seduttivo e
trasformativo una personificazione delle forze naturali che incantano
le anime, imprigionandole nel mondo sensibile e nel ciclo di
morte-rinascita. Successivamente, la qualificazione divina e solare
di Circe – ben presente in Omero – si affievolisce e poi
s’offusca del tutto: Circe indossa le vesti di maga oscura e strega
vendicativa, che irretisce gli uomini in uno stato di viziosa
animalità. Andando per rapidi scorci storici, possiamo rievocare la
cupa atmosfera che avvolge Circe nel poema virgiliano16,
i gemiti delle belve e infine l’intervento del dio Nettuno, che
impedisce a Enea l’approdo al Promontorio Circeo. E nelle
Metamorfosi di Ovidio, Circe utilizza le arti magiche e il
potere di alterare i corpi per vendicare le sue passioni ferite
(episodi di Glauco e di Pico). Per tutto il Medioevo e sino alla
seconda metà del Quattrocento, il testo omerico non fu
accessibile agli autori dell’Europa occidentale.17
Furono dunque le descrizioni degli autori latini, le citazioni
indirette e le interpretazioni cristiano-medioevali a cristallizzare
l’immagine di Circe.
Nel 1581, in occasione delle nozze del
duca di Joyeuse, si rappresenta nella Corte di Francia il Ballet
comique de la Reine, uno spettacolo che unisce
musica, danza, canto e teatro, per inscenare lo scontro tra i
principi del bene e del male (impersonato, quest’ultimo, da Circe).
È un dramma mitologico, in cui le divinità olimpiche agiscono per
riportare ordine e concordia nel mondo, per sciogliere gli
incantesimi maligni delle guerre di religione che abbrutiscono gli
uomini. Circe è sconfitta; la sua bacchetta (simbolo del potere di
vincere la natura) viene consegnata a Enrico III, il monarca solare.
L’emblema di Circe si arricchisce, in questo milieu
culturale, di ulteriori connotazioni legate alla monarchia
francese, ai suoi simboli, alla sua capacità di far fronte alle
forze disgregatrici dell’ordine sociale. Con grande successo di
pubblico, il Ballet si rappresenta per alcuni mesi e poi il
testo viene mandato alle stampe nel 1582. Bruno, con la redazione del
suo Cantus Circaeus, si inserisce in questo dibattito
politico e culturale, ed esprime il proprio punto di vista sul
bisogno di rigenerazione morale, politica e religiosa.
L’immaginazione nolana assimila e
riorienta una secolare tradizione, trasformando una figura del mito
in un emblema mnemonico che racchiude una densa concettualizzazione
filosofica. Ora, come se ci ponessimo dinanzi a un’elaborata opera
artistica che al tempo stesso ci attrae e ci inquieta, rivolgiamo lo
sguardo alla Circe figurata dal Bruno, ben consapevoli del fatto che
le prospettive d’osservazione sono plurime e che ognuna di esse
illumina soltanto un ambito specifico di significati. Impossibile
mettere a fuoco, in una visione d’insieme, la totalità delle
prospettive: perché le pitture, le statue, i sigilli, i geroglifici,
le geometrie interiori del Bruno hanno la capacità di adombrare
intuizioni noetiche e architetture concettuali che si approfondiscono
ad ogni sguardo.
A
questi geroglifici Bruno si affida per ricondurre ad unità
(ordinare, disporre, raccordare, richiamare ordinatamente alla
coscienza) la massa sterminata di nozioni che egli ha affidato al
libro interiore della
memoria. La memoria è una galleria sterminata di immagini che è
possibile osservare e decifrare in virtù di un pensiero anamnestico
(che platonicamente «ricorda da sopra», ossia nella prospettiva
unificante dell’essenza). Non c’è reminiscenza senza il
potentissimo «oculare» che svela le connessioni profonde. Ancora:
imitando Circe, l’artifex
della memoria opera una peculiare reductio
ad unum, in quanto
riconduce la disgregata molteplicità delle cose irrelate al loro
principio di unità e verità; emulando Circe, l’artista della
memoria opera l’incanto della magia solare, annodando tutto con
tutto, svelando la trama fittissima che organizza il
molteplice.
Ordine
implicato,
mente
e misura
trasformano l’inanimato
chaos
di Anassagora in
un cosmo vivente (Bruno
accoglie l’idea, espressa
fra gli altri da
Tommaso e poi dal
Cusano, per
cui il
termine
“mente” viene dal “misurare”20).
Nel De
umbris idearum, Bruno si richiama
proprio
al filosofo
greco Anassagora per contrapporre
il chaos
(una
molteplicità
priva di mente e di organizzazione)
all’universo vivente, inteso come
pluralità ordinata:
Il vero chaos
di Anassagora è una varietà priva di ordine. Così dunque nella
stessa varietà delle cose possiamo individuare un ordine mirabile,
il quale, stabilendo la connessione dei supremi con gli infimi e
degli infimi con i supremi, fa cospirare tutte le parti dell’universo
nella bellissima figura di un unico grande animale (quale è il
mondo); poiché una diversità tanto grande richiede un ordine
altrettanto grande; e un ordine tanto grande richiede una diversità
altrettanto grande. Nessun ordine si ritrova infatti dove non esiste
alcuna diversità. 21
La
logica
memorativa di
Bruno consente
all’uomo di proseguire attivamente
l’opera
di Circe-Natura, ordinando
il proprio mondo interiore, rendendo
conoscibile e memorabile
ciò che inizialmente si presenta come un
chaos
ingovernabile. Nella
sua condizione naturale, l’uomo subisce passivamente le
impressioni dei sensi e il fluire della fantasia; di qui la
necessità di costruire in sé stessi un principio egemonico e
ordinatore. Si mostra qui con
maggiore chiarezza il nesso fra la magia circea, la memoria e la
conoscenza. Nella concezione bruniana,
la magia è una forma privilegiata di
conoscenza proprio perché riconosce
quel principio di comunicazione universale (la
vivente analogia degli enti, la scala
naturale, la simmetria)
che anima la stessa madre Natura. La magia è dunque un approccio
conoscitivo che si traduce
in capacità operativa e
permette all’uomo di intervenire nella
trama di relazioni che sorregge i fenomeni. Richiamandosi all’arte
solare di Circe (il cui potere deriva dal Sole-Apollo che
è l’espressione
visibile dell’Intelletto universale,
del divino
Architetto, dell’Uno
in quanto armonia dei distinti),
Bruno differenzia il proprio sapere
effettuale,
fecondo e riformatore da ogni pedanteria. Bruno ritiene di avere
finalmente perfezionato
un metodo che ottiene «con facilità quanto viene cercato per via
teorica attraverso la logica, la metafisica, la cabala, la magia
naturale, le arti magne e brevi».22
C’è qui il riferimento al progetto grandioso
di una lingua filosofica, di un sistema
per intendere e combinare i concetti di ogni sapere particolare che
in età
rinascimentale aveva accomunato i cultori del lullismo, del
neoplatonismo, dell’ermetismo, della letteratura cabalistica.23
Risulta evidente come la musa nolana ci
suggerisca visioni che solo in modo congetturale e frammentario
possono essere trasferite in un discorso logico-razionale. Di qui la
necessità – per chi voglia commentare le opere di Bruno – di
tornare “ricorsivamente” sugli stessi temi, ricercando una
ridondanza di significati da cui sia possibile ricavare
l’idea
esplicativa. Fatte queste
precisazioni, rinnoviamo ora il proposito di osservare Circe come
un’immagine mnemonica che Bruno lascia agire nel Cantus, per
“dare corpo” a intuizioni
noetiche che si ramificano in
ordini concettuali
apparentemente separati:
chaos
e cosmo,
varietà e
unità, apparenza ed
essenza, oblio
e memoria,
indeterminazione e forma.
Si tratta infatti
di nodi
concettuali complessi
e fecondi,
in cui i contrari si
rovesciano l’uno
nell’altro.
Negli Eroici Furori, Bruno dà
esplicite indicazione al lettore: Circe che insieme illumina e
accieca «significa la omniparente materia, et è detta figlia del
Sole, perché da quel padre delle forme ha l’eredità e possesso di
tutte quelle le quali con l’aspersion de l’aqui, cioè con l’atto
della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armonica
raggione, cangia il tutto»24.
Circe è la materia che con moto inesausto genera e dissolve le cose
di questo mondo, volendo dare esistenza a tutto l’essere possibile.
È perciò una forza numinosa, al tempo stesso terribile e benigna.
Nei limiti del mondo fisico, che è una mescidanza di luce e di
tenebra, la generazione si esprime come un avvicendamento dei
contrari: la ruota
della vicissitudine, che scandisce l’alternanza di giorno e notte,
di sopra e sotto, appare certamente
vana
e insensata,
se considerata
nella chiusa prospettiva del singolo ente; ma si appalesa
come suprema giustizia nell’orizzonte
del Tutto. Lungi dall’essere una semplice attitudine a
ricevere dall’esterno l’anima e la misura (così come la cera
riceve l’impronta del sigillo), la materia è vita infinita ed è
l’espressione, sul piano della produttività fisica,
dell’inesauribile Artefice cosmico.
E che ne è dell’uomo, in quanto
partecipe sia del mondo fisico sia del mondo soprafisico?
«Come inebriato da le tazze di Circe va
cespitando e urtando or in questo, or in quell'altro fosso, or a
questo or a quell'altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa,
or in quell'altra faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né
materia di fermarsi e stabilirsi»25.
L’atto della generazione (il
«circeo incantesimo»)
fa smemorare l’anima e la
irretisce nella fantasmagoria del
mondo sensibile, che
è una sorta di recinto in cui prevalgono la
lotta e la
sopraffazione.
L’uomo è sopraffatto dalla bellezza
del mondo sensibile, ne è attratto al punto da dimenticare la sua
patria celeste.
Ma persino
in questa
condizione
di smemoratezza
è offerta
una possibilità di illuminazione:
contemplando
le
ombre sensibili, l’uomo – egli
stesso «umbra profunda» – può
riconoscere
nel fondo della propria
anima i
riflessi, i
barlumi,
gli
indizi
delle idee divine. La
condizione umbratile in cui è confinata ogni
esperienza
umana segna
un limite invalicabile; eppure
– per
chi sappia educare il proprio occhio – l’ombra
è anche
una
soglia e un passaggio (limen)
verso
un nuovo stato.
L’ombra
è una zona liminale in cui inizio e fine coincidono. Attraverso
il
graduale riconoscimento della consonante analogia di tutte le cose
(«harmonica
consonanteque collatione»),
l’anima
intraprende
il
suo ascensus
verso
la luce ideale.
Il
furioso, posseduto dal
nobile amore per il divino,
guadagna a tratti il
punto di vista della totalità
e perciò comprende
e infine celebra
l’incanto circeo come esplicazione sul
piano fisico
della mens–mensura
che regge
l’universo.
Circe
non è altro che la forza,
tutta interna alla stessa natura, che secondo l’ordine del tempo
rinnova e ringiovanisce il mondo: «Oh
se piacesse al cielo» – si legge nei Furori
– «che a questi tempi ne si fesse presente, come fu in altri
secoli più felici, qualche saga Circe che con le piante, minerali,
venefici et incanti era potente di mettere come il freno alla
natura»26.
La
figlia del Sole è l’incantatrice
somma, in quanto artefice di
una
magia dei contrari che imbriglia
la
potenza
generativa del chaos
(la
sovrabbondanza di vita, la
dismisura, la
disgregazione prodotta
dal tempo),
imponendo
ad
essa la
forma
luminosa
della Mente universale, che tutta si effonde in ogni luogo. Nessuno
meglio della divina Tessitrice
poteva rappresentare iconicamente una tale capacità
di sciogliere
e annodare.
Il
chaos è inestinguibile e sempre risorge, in ogni ambito del
mundus triplex. Come sappiamo, Bruno suddivide il grande mare
dell’essere in tre ambiti: il mondo metafisico, il mondo fisico e
il mondo logico (la mente dell’uomo, in cui si proiettano le ombre
degli enti fisici, che a loro volta sono tracce e vestigi delle idee
metafisiche). Ebbene, questi tre mondi sono pervasi in vario grado
dalla luce divina che è proporzione, bellezza, integrità,
simmetria, ordine:
Ordine
chaos physicum in pulchrum mundi spectaculum est digestum;
ordine chaos intelligibile discussum metaphysicum mundum ab
aeterno distrinxit, distinctumque praebuit; ordine chaos
imaginabile in mundum tertium, utriusque mundi praecedentis
simulacrum, promovemus. Hic est contra casum temeritatemque
continuus reclamator.27
Qui
Bruno ci dice che, nel mondo intelligibile,
il chaos
è imbrigliato ab
aeterno.
Ma negli altri piani dell’essere, dove la creatività vitale si
esprime come
vicissitudine,
pluralità
e opposizione, la forza dirompente del chaos
dev’essere costantemente arginata.
Ciò
che trasforma il chaos
in un mondo è la voce possente del principio ordinatore
(«Ordo»)
che continuamente si leva contro il caso e la fatalità. La voce
ordinante separa, distingue, indirizza; e così facendo pone argine
alla tracotanza e alla disaggregazione,
che
fatalmente
crescono
laddove gli
enti si
fanno
più opachi e insensibili
alla
luce
divina.
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1«Quis
quæso rerum modus est? Ecce sub humano cortice ferinos animos.
Convenit ne hominis corpus ut cæcum atque fallax habitaculum
bestialem animam incolere? Ubi sunt iura rerum? ubi fas, nefásque
naturæ? Si repetivit Astræa cælum, cuius ne vestigium quidem
terra videat: cur non de cælo saltem apparet Astræa? Ecce
subivimus minime occultum Chaos. Cur non miscentur ignibus maria, et
limpida nigris terris astra: si in terris ipsis et earum
gubernaculis nihil est quod faciem demonstret suam? Ipsa ne nos
mater natura decipit? Matrem dixerim an novercam? [...] Cur ergo
similem debuimus in ipsa natura ypocrisim experiri? Si perpauci
hominum animi sunt effincti, cur quæso tot hominum sunt efformata
corpora? Convertere igitur ad partes tuas ô Sol, et tantum naturæ
et dignitatis tuae præiudicium vindicato. Insignito Circem tuam tu
cæterique præpotentes dii, ut eidem potentia qua ministerialibus
spiritibus proximisque corporum istorum formatoribus imperare
valeat.» Cantus Circaeus ad eam memoriae praxim ordinatus quam
ipse iudiciariam appellat, in Iordani Bruni Nolani, Opera
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3 voll., in 8 parti, Neapoli [Florentiae], 1879-91 [= Op.lat.], vol.
II, pars I, pp. 186-187. (Per la traduzione italiana, rinviamo al
volume curato e annotato da N. Tirinnanzi, G. Bruno, Le ombre
delle idee, Il canto di Circe, Il sigillo dei sigilli, Milano,
1997).
2«Moeri,
explica membranam in qua sunt potentissimæ notæ, quarum mortales
omnes latent misteria. Hæc sunt quibus ipsas credimus nos posse
mutare naturæ leges: cur non per ipsas licebit easdem impie
prophanatas instaurare?» (Ivi, p. 193).
3Ivi,
p. 211.
4Ivi,
pp. 47-48 [trad. nostra]. («Unum est quod omnia definit. Unus est
pulchritudinis splendor in omnibus. Unus e multitudine specierum
fulgor emicat. Quod si coniicias: tale inter oculos tuos et
universaliter visibilia interpones oculare, ut nil sit quod te
fugere possit omnino.»)
5Ivi,
p. 186: «Adesto sacris filiæ tuæ Circes votis. Si intento,
castóque tibi adsum animo, si dignis pro facultate ritibus me
præsento. En tibi faciles aras struximus. Adsunt tua tibi
redolentia thura, sandalorúmque rubentium fumus. En tertio
susurravi barbara et arcana carmina. Peractæ sunt lustrationes.
Septem suffituum genera pro septem mundi principibus expedivimus.
Solutiones et ligamenta de more sunt peracta. Sygillavimus omnia.
Unum abest ut præcationum quæ præcurrere debuerunt, quæque ad
suos repetitæ sunt numeros concupita proferamus. Moeri inspice
lineam, et vide an adhuc altum cæli sol teneat.» Bruno esibisce
qui una conoscenza dettagliatissima del De occulta philosòphia
di Cornelio Agrippa di Nettesheim e del De Vita di Marsilio
Ficino.
6Una
delle denunzie presentate dal Mocenigo all’Inquisizione di Venezia
chiama in causa il Cantus Circaeus, insinuando che Bruno
aveva «havuto intentione di parlare di tutte le dignità
ecclesiastiche, e che per la figura del porco haveva voluto
intendere il Pontefice». Cfr. L. Firpo, Il processo di G. Bruno,
Roma, 1993, p. 71.
7«Natura
est sempiterna et individua essentia […] per insitam sibi
sapientiam agens». «Ipsa est ars vivens et quaedam intellectualis
animae potestas, non alienam sed propriam, non extrinsecus sed
intrinsecus, non electione tali, sed essentia tali, materiam
perpetuo figurans: utpote son sicut statuarius externe, cum
discursu, et instrumento operatur, sed perinde ut Geometra, dum
vehementer quodam affectu figuras imaginatur, spiritum eius intimum
imaginatione movet atque figurat». Acrotismus Camoeracensis,
in Op.lat., vol. I, pars. I, p. 80.
8G.
Bruno, Epistola proemiale, premessa a De l’infinito,
universo e mondi, in Opere italiane, con testi critici di
G. Aquilecchia, coordinamento di N. Ordine, Torino, Utet, 2002
[d’ora in avanti Op.it.], vol. II, pp. 9-10; Anche nella Cena
de le ceneri, Bruno biasima quanti «vissero morti […] ne gli
anni proprii» (Op.it., vol. I, p. 460).
9Le
complesse vicende e le comiche oscenità in cui sono coinvolti i tre
protagonisti del Candelaio (il pedante Mamfurio, il vecchio
Bonifacio, l’alchimista Bartolomeo) adombrano i temi del chaos,
della stoltezza del mondo, della vanitas, del dissidio
insanabile fra essere e apparire.
10Sui
temi della crisi universale e della pedanteria, cfr. M. Ciliberto,
L'occhio di Atteone: nuovi studi su G. Bruno, Roma, 2002, in
part. pp. 26-27.
11Platone,
Simposio, 215 A-B; 216 D.
12G.
Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Op.it., vol II, pp.
173-174.
13Erasmo
da Rotterdam, Adagi, con testo latino a fronte, a cura di E.
Lelli, Milano, 2013, p. 1742-43. («Apri il Sileno e troverai un
maiale, un leone, un orso o forse un asino. Ne risulta uno
spettacolo assai diverso da quello che i poeti attribuiscono
agl’incantesimi di Circe. I suoi avevano un aspetto di bestie ma
nella mente erano uomini; qui sotto l’aspetto umano si nascondono
delle bestie.»)
14«[Aristotele]
studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene
più incaminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano
nella superficie delle cose, che della verità, che è occolta nella
sustanza di quelle et è la sustanza medesima loro». Eroici
Furori, in Op.it., p. 686.
15Odissea,
libro X, vv. 133 e sgg.; cfr. anche libro XII.
16Aen.
7, 10-24.
17Cfr.
I. Berti, Le metamorfosi di Circe: dea, maga e femme fatale, «Status
Quaestionis. Rivista di Studi Letterari, Linguistici e
Interdisciplinari», vol. VIII, anno 2015, pp. 122-123.
18Cfr.
E. Hatzantonis, Il potere metamorfico di Circe quale
motivo satirico in Machiavelli, Gelli e Bruno, «Italica», vol.
37, num. 4 (dic. 1960), pp. 257-267.
19Così
Bruno riassume la vicenda dinanzi agli Inquisitori veneti:
«acquistai nome tale che il re Henrico terzo mi fece chiamare un
giorno, ricercandomi se la memoria che havevo et che professava era
naturale o pur per arte magica. Al qual diedi sodisfattione; et con
quello che li dissi et feci provare a lui medesmo, conobbe che non
era per arte magica ma per scientia. Et doppo questo feci stampar un
libro de memoria, sotto titolo De umbris idearum,
il qual dedicai a Sua
Maestà; et con questa occasione mi fece lettor straordinario et
provisionato». G. Bruno.
Un’autobiografia, a
cura di
M. Ciliberto, Napoli, 1994, p. 49.
20Il
nesso etimologico mente-misura viene esplicitamente richiamato da
Bruno nel Sigillus sigillorum: «mens, a qua denominatur apud
nos mensura» (Op.lat., Vol. II, pars II, p. 215). La correlazione
fra mente, numero e misura è espressa con mirabile efficacia nel
poema filosofico francofortese De triplici minimo et mensura:
«Mens super omnia Deus est. Mens insita omnibus natura. Mens omnia
pervadens ratio. Deus dictat et ordinat. Natura exequitur atque
facit. Ratio contemplatur et discurrit. Deus est monas omnium
numerorum fons, simplicitas omnis magnitudinis
et compositionis substantia, et excellentia super omne
momentum, innumerabile, immensum. Natura est numerus numerabilis,
magnitudo mensurabilis, momentum attingibile. Ratio est numerus
numerans, magnitudo mensurans, momentum aestimans.» (Op.lat., vol.
I, pars III, p. 136).
21Traduzione
italiana desunta da N. Tirinnanzi (a c. di), G. Bruno, Le ombre
cit., pag. 70 (vedi Op.lat., vol. II, pars I, pag. 27). Per l’idea
del mondo come grande animale, cfr. Platone, Timeo, 30d-31c.
22Il
titolo dell’opera da cui ricaviamo la citazione merita di essere
considerato nella sua interezza: «Esposizione dei trenta sigilli,
per l’invenzione, la disposizione e la memoria di ogni scienza e
disciplina. Ai quali è aggiunto il Sigillo dei sigilli, che porta
con successo a organizzare tutte le operazioni dell’animo e a
trattenerne i significati. E non a torto si definisce arte delle
arti: qui infatti troverai con facilità quanto viene cercato per
via teorica attraverso la logica, la metafisica, la cabala, la magia
naturale, le arti magne e brevi». Per la traduzione italiana,
facciamo qui riferimento a G. Bruno, Esposizione dei trenta
sigilli, in Opere mnemotecniche, a cura di M. Matteoli,
R. Sturlese, N. Tirinnanzi, edizione diretta da M. Ciliberto, tomo
II, Milano, 2009.
23Cfr.
P. Rossi, Studi sul lullismo e sull’arte della memoria nel
Rinascimento: i teatri del mondo e il lullismo di Giordano Bruno,
«Rivista Critica di Storia della Filosofia», vol. 14, num. 1, anno
1959, pp. 28-59.
24Op.it.,
pp. 515-516.
27Sigillus
sigillorum, in
Op.lat., Vol. II,
pars II,
p. 216. Sottolineatura nostra. («Con l’ordine il
chaos fisico viene composto nel bello spettacolo del mondo; con
l’ordine il disperso chaos intelligibile dall’eternità delimitò
in sé il mondo intelligibile, e lo presentò come distinto; con
l’ordine indirizziamo il chaos immaginabile a formare un terzo
mondo, simulacro di entrambi i precedenti. È questo ordine che
continuamente grida smentendo il caso e la fatalità.») La
traduzione italiana è desunta da N. Tirinnanzi (a c. di), G. Bruno,
Le ombre cit., pag.
28Non
possiamo qui approfondire le profonde significazioni teologiche e
filosofiche del termine “modus”.
Ci limitiamo a suggerire alcuni spunti. Nel diritto romano “modus”
indica la “misura”, in quanto limite imposto all’esercizio di
un diritto. Per Agostino (De
beata vita, 4, 34), Dio padre è il «summus
Modus»,
ossia la «Misura
somma»; mentre il Figlio è la Sapienza che si genera nel Modus
e lo rende conoscibile. Le concezioni agostiniane rivelano profonde
assonanze con la dottrina platonica secondo cui «Dio è per noi la
misura [metron] suprema di tutte le cose» (Leggi,
IV 716 C). Il dio platonico include in sé il Bene e il Bello, ossia
un principio d’ordine e di proporzione. E il filosofo,
armonizzando le parti della sua anima, ha il compito di riprodurre
in sé stesso proporzione e misura (Resp., IV 443 C-E). In
ambito cristiano, la concezione pitagorico-platonica (si pensi anche
al Timeo, che
il Medioevo conosceva)
di misura nel senso ontologico di principio di unità e forma
sembrava trovare fondamento nel testo biblico di Sap, 11, 20:
«Sed omnia in mensura et numero et pondere disposuisti» (Ma tu
hai tutto disposto con misura, calcolo e peso). La concezione
della struttura matematica del cosmo era ampiamente illustrata nei
testi di Agostino e Boezio dedicati alla musica. Infine, mette conto
ricordare che la triade sapienziale mensura, numerus,
pondus è strettamente connessa – nella riflessione teologica
medievale – a una seconda triade: modus, species (bellezza
in quanto armonia delle parti) e ordo. Su questi temi, cfr.
U. Eco, Scritti sul pensiero medievale, Milano 2012, in part.
cap. 3.1 («La
visione estetica dell’universo»);
Tina Manferdini, Comunicazione ed estetica in Agostino,
Bologna, 1995, pp. 213-214; L.F. Pizzolato, Il modus
nel primo Agostino, in La
langue latine, langue de la philosophie. Actes du colloque de Rome
(17-19 mai 1990), École Française de Rome, Rome 1992, pp.
245-261.